L’Honduras tra repressione golpista e silenzio mediatico

7 febbraio 2010 - Scritto da  
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Vogliamo aprire una rubrica inusuale per una federazione provinciale, ma che riteniamo indispensabile per aprire gli occhi (e la mente) e far si pre risolvere i problemi del nostro giardino ci si soffermi a conoscere e riflettere sulle problematiche di altre realtà del nostro pianeta. Lo facciamo facendo un patchwork letterario del lavoro di Gennaro Carotenuto, sull’analisi di cosa sta succedendo in una delle (tante) dimenticate tragedie del mondo: l’Honduras.

Capitolo 1: un paese normalizzato o un paese che non dimentica il golpe?

TEGUCIGALPA, 26 gennaio. – Sembra tutto pronto a Tegucigalpa per voltare pagina. Domani con una grande festa nello stadio nazionale, ci sarà il passaggio di poteri dal dittatore di Bergamo Alta, Roberto Micheletti a Porfirio “Pepe” Lobo. Sarà una grande occasione per rappresentare la nuova “pax americana” in Centro-America e per alcuni paria, come il presidente taiwanese, che ben raramente viene invitato ad eventi internazionali. Ma molte cose non quadrano e per le strade di Tegucigalpa si vedono i segnali che da tutto il paese l’opposizione democratica saprà dimostrare ancora una volta la sua forza.

Muoversi per le strade di Tegucigalpa, anche in queste ore, vuol dire trovare una città viva, insolitamente più vivibile rispetto alle altre capitali centroamericane. Ma, rispetto alla martellante campagna dei media ufficiali, che magnificano la forza della democrazia honduregna, e non fanno parola né sul caso Zelaya, né sulla grande manifestazione dell’opposizione democratica prevista contemporaneamente al dubbioso e illegittimo trasferimento di poteri, qualcosa sembra non quadrare.

Il primo punto che non quadra è il fatto che Micheletti, il golpista del 28 giugno, non si è mai dimesso. Semplicemente è andato via dal palazzo di governo. Ieri, lunedì, non ha presenziato all’entrata in carica degli amministratori locali, anche se ha mandato una lettera e ha ricevuto un applauso a scena aperta dai politici espressione della classe dirigente honduregna che ha appoggiato il golpe. Non dovrebbe esserci neanche domani a sentenziare con la sua assenza la stravaganza di un passaggio di poteri da un golpista a un presidente eletto in elezioni non democratiche e senza opposizione né osservatori internazionali.

Da parte sua il nazionalista Porfirio Lobo ce la mette tutta per legittimarsi anche nel consesso internazionale. Firmando una amnistia (domattina) vuol chiudere le sanguinose vicende del colpo di stato con la lacrimevole retorica sulla famiglia honduregna che deve riunirsi e che travolge ogni considerazione sull’impunità per le decine di vittime del golpe. Facendo uscire Manuel Zelaya dall’ambasciata brasiliana, dove è rifugiato da mesi, per recarsi in esilio nella Repubblica dominicana, vuol risolvere la più spinosa delle questioni aperte.

Proprio il presidente dominicano Leonel Fernández, che porterà con sé Zelaya al ritorno, è probabilmente il più importante degli ospiti internazionali che presenzieranno al trasferimento di poteri. Con lui il panamense Martinelli, il guatemalteco Colom, il salvadoreño Funes e pochi altri tra i quali il presidente taiwanese, paese riconosciuto dall’Honduras fin dagli anni ’60. Non inganni però questa sparuta e poco qualificata avanguardia: in molti, gli Stati Uniti in primo luogo, ma compresi anche i paesi integrazionisti latinoamericani, aspettano da Lobo appena qualche segnale per poter salire dal cul de sac del golpe e riprendere il tran tran che dura dall’82 di una “democrazia protetta” per l’Honduras.
Chi non ci sta è l’opposizione democratica. Già nelle stazioni degli autobus incontriamo le avanguardie di quella che si preannuncia una grande manifestazione. “Saremo tanti come mai”. “Ci reprimeranno ma non ci fermeranno”. Tra le parole d’ordine continueranno a chiedere (inascoltati) un’Assemblea costituente. Saremo con loro domani.

Capitolo 2: 132 morti il bilancio della dittatura

TEGUCIGALPA. Secondo le organizzazioni in difesa dei diritti umani honduregne e in particolare per il presidente del CODEH Andrés Pavón, che ha tenuto una conferenza stampa in merito, i golpisti in Honduras dal 28 giugno ad oggi avrebbero ucciso 132 persone e ferito almeno 453 altre. Di queste circa 30 sarebbero state uccise durante mifestazioni pubbliche e il resto assassinate da sicari, squadroni della morte o durante detenzioni arbitrarie.

Wendy Davila, è possibile citare solo alcuni dei 132 nomi, aveva 24 anni ed era una studentessa. E’ morta il 26 settembre a causa di un attacco respiratorio causato dal lancio di lacrimogeni da parte della polizia davanti all’Ambasciata brasiliana. Marco Antonio Canales, lo stesso giorno è stato assassinato da sicari mentre usciva dalla sede di Radio Globo. La lista prosegue per pagine e pagine.

Dal 28 giugno ad oggi in Horas vi sono stati almeno 3.033 arresti illegali documentati, 114 giornalisti aggrediti, 14 media chiusi e attualmente vi sarebbero ancora nelle carceri del paese almeno 114 prigionieri politici, un numero di molto superiore a quelli per i quali viene condannata Cuba e che tuttovia non commuove i grandi media internazionali.

Nonostante il complesso mediatico internazionale tergiversi e faccia credere che l’amnistia che proclamerà domani mercoledì il nuovo presidente Porfirio Lobo sia una concessione e si riferisca a presunti reati commessi dal deposto presidente Zelaya è in realtà ai crimini commessi dalla dittatura di Micheletti e in particolare ai 132 assassinii che l’amnistia è diretta. E’ parte infatti dei precisi accordi con  quali i due maggiori partiti del paese, il liberale ed il nazionale si sono divisii compiti. Il partito liberale ha realizzato il lavoro sporco, evitando che  arrivasse alla convocazione  dell’assemblea costituente, al prezzo di vittime citato, e il partito nazionale, complice in tutto, sistemerà le cose con una falsa discontinuità.

Le decine di organizzazioni democratiche che domani sfileranno per le strade della capitale si sono mostrate compatte nel ripudiare l’amnistia considerata un colpo di spugna. Non così la comunità internazionale che non vede l’ora di voltare pagina e che di quei 132 morti senza giustizia non sa cosa farsene.

Capitolo 3: L’Honduras volta pagina? Bilancio (finale?) del primo colpo di stato riuscito del XXI secolo

Varie chiavi di lettura descrivono il momento politico vissuto mercoledì 27 a Tegucigalpa dove nell’eclissi del dittatore Roberto Micheletti si è insediato il nuovo presidente Porfirio Lobo e dove il presidente legittimo, ma esautorato dal golpe, è partito per l’esilio acclamato dai suoi.

La prima chiave, con un golpe di stato conservatore completamente riuscito ed uscito di scena solo dopo aver portato a termine il proprio compito, è quella della sconfitta politica per la sinistra, che era al governo e lo ha perso, sia pur con la forza, e per la democrazia centroamericana tutta. Il successo del golpe è infatti un monito e un’ipoteca per l’America centrale (vi sono governi di centro-sinistra molto light sia in Salvador che in Guatemala) e per tutta l’America latina integrazionista.

Il 27 è stata dunque la giornata dell’insediamento di Porfirio “Pepe” Lobo, un conservatore come tanti eletto come quasi tutti in Centro America in elezioni farsa, alla presidenza della Repubblica. È stata anche la giornata della partenza per l’esilio dominicano di Mel Zelaya, accompagnato negli ultimi momenti in patria da tutto un popolo. È stata inoltre la giornata della normalizzazione hondureña, desiderata dalla comunità internazionale che pure aveva ripudiato il golpe e che ancora non riconosce il nuovo governo.  È stata poi la giornata dell’amnistia a Roberto Micheletti e ai suoi scherani che escono di scena secondo i dati del CODEH con 132 assassinii sulla coscienza.

È stato infine il giorno nel quale l’opposizione democratica, la Resistenza, rilancia, si ritrova e si riconosce e va verso la fondazione di un partito che vede nello stesso Mel Zelaya il leader naturale, l’unico in grado di aggregare forze molto eterogenee, classe media liberale, movimenti sociali, sinistra tradizionale. Qualcuno vorrebbe chiamarlo Partito Socialista Honduregno e dargli come primo obbiettivo l’Assemblea costituente, il motivo scatenante del golpe. È un progetto embrionale e probabilmente impraticabile e, nonostante l’evidente accumulazione di forze della sinistra e della Resistenza, per intanto tra i fatti va annoverata la sconfitta di un paese che fino al 28 giugno Emilio Fede avrebbe colorato di rosso e che adesso è blu cobalto.

FATTI

L’ultimo atto da presidente golpista di Roberto Micheletti, (il dittatore di Bergamo Alta noto da queste parti come Gorilletti o Pinochetti) è stato far uscire l’Honduras dall’ALBA, l’organizzazione di cooperazione tra stati capitanata da Venezuela, Bolivia, Cuba. Uno dei primi atti da presidente di Porfirio Lobo (laureato in economia a Miami, non è una colpa ma è un imprinting) è ricevere la delegazione dell’FMI chiamata a mettere in ordine alla maniera neoliberale nei conti del paese.

Si chiude così una tappa eccentrica della storia “catracha”. L’Honduras torna nell’alveo di quelle nazioni civilizzate che lasciano decidere della loro economia a banchieri del Nord, possibilmente bianchi, anglosassoni, protestanti. Così, per esempio, non si metterà in pratica il folle progetto di Zelaya di alzare il salario minimo a circa 320 Euro in un paese dove molti, scuri di pelle, indigeni e cattolici, non arrivano a 150 Euro per lavorare da sole a sole (Che roba contessa…). L’alternativa, nel programma del prudente Lobo, sarà donare una tantum 400 Euro alle 600.000 famiglie più disgraziate di un paese che ha l’80% di poveri.

Altro fatto è che martedì, poche ore prima di entrare in carica, Porfirio Lobo si è riunito con Arturo Valenzuela, massimo responsabile per la politica latinoamericana di Hillary Clinton. Hanno concordato un pacchetto di aiuti per 2 miliardi di dollari. Le male lingue ricordano che tali aiuti corrispondono all’800% di quanto gli Stati Uniti hanno stanziato per i terremotati di Haiti. Ogni cosa ha il suo prezzo (e per tutto il resto c’è Mastercard) ed evidentemente la vaccinazione dell’America Centrale dall’infezione “chavista”, dai medici cubani, dall’aumentare il salario minimo e da tutto quello che un tempo si sarebbe definita solo un po’ di redistribuzione keinesiana, vale per la signora Clinton ben più di quattro lumpen haitiani che pure sono buoni per sfolgoranti esibizioni in divisa da dama di San Vincenzo.

Il terzo fatto da sottolineare è l’amnistia votata dal parlamento e controfirmata da Lobo per i golpisti. È interessante come il complesso disinformativo mondiale racconti che questa sia una graziosa concessione per i crimini commessi da Mel Zelaya che hanno obbligato i militari a prelevarlo in pigiama da casa, sequestrarlo e portarlo oltre frontera e non per le migliaia di violazioni dei diritti umani commesse in questi mesi ed evidentemente incluse nell’amnistia solo per un disguido.

L’ultimo fatto è che se alla cerimonia hanno assistito appena tre capi di stato (Panama, Taiwan e Repubblica dominicana) tutti, non solo i paesi filostatunitensi e/o filogolpisti vedono nel riconoscimento di Porfirio Lobo, a breve o medio termine, l’unica possibile soluzione alla crisi. Succederà, forse prestissimo. Álvaro Uribe sarà qui ad ore.

EMOZIONI

Nello Stadio Nazionale, ancora intitolato a quel macellaio fascista di Tiburcio Carías, che fu dittatore negli anni ’30-’40, l’atmosfera era surreale. I fischi al presidente dominicano Leonel Fernández, venuto solo per accompagnare Zelaya in esilio nell’isola, testimoniavano come in quella cerimonia vi fossero due convitati di pietra: Roberto Micheletti e Mel Zelaya.

Micheletti, pur amnistiato, è tornato un paria. Una volta compiuta la missione nessuno in Honduras ha più difficoltà a riconoscere che quello del 28 giugno è stato un golpe brutale ed è particolarmente penoso ripercorrere come in questi mesi i grandi media “democratici” si siano arrampicati sugli specchi per negare questa realtà. È rimasto a casa per non compromettere Lobo, ma è stato come se ci fosse.

Zelaya dal canto suo non poteva esserci neanche volendo, ancora rinchiuso nell’Ambasciata brasiliana. Ha trasferito simbolicamente la sua fascia presidenziale non a Lobo ma al popolo hondureño che lo ha accompagnato all’aeroporto. Forse 100.000 persone hanno cantato, si sono emozionate, hanno pianto in un’atmosfera che aveva poco a che vedere con quella di sconfitta e con un futuro particolarmente incerto. La Resistenza è un fronte molto composito, forse troppo. Classe media liberale accomunata dal riconoscimento in Zelaya di un leader che ha rotto molti schemi. Sinistra moderata, sinistra tradizionale, sinistra bolivariana, movimenti sociali con una preponderante presenza femminile. Lumpenproletariato asfissiato dai propri problemi di sopravvivenza è che ha visto in Mel una speranza. Troppi soggetti e troppo diversi per piattaforme comuni e addirittura per un partito unico o per torcere il braccio a Lobo e obbligarlo a quell’Assemblea costituente che metterebbe in moto la democrazia nel paese.

Eppure quella folla eterogenea sembrava davvero un popolo unico, il popolo hondureño che si riconosceva nelle bandiere di Francisco Morazán, in quelle del Che, in quelle cubane, in quelle venezuelane e soprattutto in quelle brasiliane con quel verde oro che brillava nel cielo di Tegucigalpa.

Forse Mel Zelaya, un politico che fino a un paio d’anni fa non si era differenziato dal curriculum grigio se non nero della classe politica centroamericana, è davvero uscito di scena con l’esilio dominicano. Ma in quell’abbraccio di folla, in quegli slogan bolivariani, nella richiesta del suo ritorno, anche gli scettici (come un po’ chi scrive) hanno dovuto riconoscere che Zelaya è riuscito a sintetizzare le emozioni, i sogni, le aspirazioni di tutte quelle persone che, nel momento nel quale si ritrovano sconfitte politicamente, si scoprono anche forti nello stare e sognare insieme un Honduras diverso possibile. Le emozioni non sono fatti, ma a volte sono perfino più consistenti.

Capitolo 4: Pennellate dall’Honduras (la lotta e la repressione continuano)

Non avevo mai visto aspirare colla. Tantomeno in strada, nel centro di una capitale come Tegucigalpa, in pieno giorno. Qui si vede con facilità. A me prende alla bocca dello stomaco, ai ragazzini al cervello.

Ho capito, documenti alla mano, perché il cardinal Oscar Maradiaga, la speranza progressista nell’ultimo conclave, ha appoggiato i golpisti. Dal ‘98 il governo gli passava un appannaggio per spese personali di 100.000 lempiras al mese in un paese dove molta gente non arriva a 3.000. Mel Zelaya aveva osato eliminare questo appannaggio e il cardinale gliel’ha giurata. Ci sono anche storie su ricatti dell’Opus Dei, ma non sono in grado di verificare.

Quello che è sicuro è che in pochi mesi di dittatura l’Opus Dei ha ottenuto la proibizione della pillola del giorno dopo e il carcere per le donne che abortiscono. E ovviamente tutti i finanziamenti di Zelaya per le questioni di genere sono spariti chissà dove.

Ieri mattina alle otto, primo giorno di servizio per il nuovo (vecchio) ministro degli Interni, le strade erano piene di soldati in applicazione alla nuova politica di “mano dura”. Ieri sera i posti di blocco erano ovunque. Finalmente si fa sul serio contro i narcos? A guardare i giornali di destra di oggi hanno scoperto un lanciagranate fuori dalla finestra di un dirigente della Resistenza contro il golpe. Si fa sul serio nel criminalizzare la Resistenza.

Le pauperrime donne indigene coinvolte nei programmi di alfabetizzazione in un paesino del Nord hanno cominciato a rinunciare. Una dirigente di un’associazione contro la violenza alle donne ha cominciato ad indagare: “è che se andiamo ai corsi di alfabetizzazione ci sequestrano e ci portano in Venezuela a fare da schiave a Chávez”.

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