La collina dei veleni è senza colpevoli

11 marzo 2011, by  
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Tutti assolti perché «il fatto non sussiste». Si conclude nel nulla il processo sul sotterramento di rifiuti tossici nella discarica spezzina, che ha provocato uno dei peggiori disastri ecologici nella storia d’Italia. A nulla sono servite le denunce presentate da associazioni e cittadini Dopo 15 anni di inchieste, tutti assolti gli undici imputati per il disastro ambientale di Pitelli, a La Spezia È un silenzio plumbeo quello che ieri è calato sulla collina dei veleni.

La discarica di Pitelli – che sovrasta il golfo dei poeti di La Spezia – è ormai chiusa dal 1996, quando la forestale sequestrò definitivamente gli impianti, eseguendo un ordine arrivato dalla procura di Asti. Ma le quattro vasche cariche di veleni, che i tecnici ritengono ormai non più bonificabili, rimarranno come un monumento eterno all’Italia dell’impunità. Non c’è un colpevole, non è stato commesso nessun reato, questo hanno detto i giudici, dopo una camera di consiglio di poche ore, terminata con la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati. «Il fatto non sussiste», recita con freddezza il codice. Con un dubbio finale, contenuto nel secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale, citato nel dispositivo, che corrisponde grosso modo all’insufficienza di prove del vecchio codice di procedura penale.

Ora la città di La Spezia rimarrà ancora una volta sola di fronte ad un dubbio, che si trascina da decenni: come è stato possibile veder crescere la più grande discarica di rifiuti industriali nel mezzo di una zona che era stata dichiarata a tutela paesaggistica? «Qui per la legge non si poteva neanche cogliere un fiore», aveva spiegato Roberto Lamma, avvocato di Legambiente, parte civile nel processo. Eppure dall’agosto del 1976 Orazio Duvia, un imprenditore con un passato sostanzialmente incolore e sconosciuto, aveva costruito un vero e proprio impero della monnezza sui terreni che dominano il golfo di La Spezia. Roba pesante, a leggere le perizie. Fusti che provenivano da tutta Italia, svuotati in quattro invasi costruiti uno sopra l’altro, grazie all’intero sistema politico, amministrativo e giudiziario che per anni non ha voluto vedere quello che stava accadendo.

Ci volle la tenacia di Luciano Tarditi, un pubblico ministero di Asti, per scoperchiare il vaso di Pandora di Pitelli. «I colleghi di La Spezia mi dissero che data la gravità del problema – raccontò Tarditi davanti alla commissione rifiuti presieduta da Massimo Scalia – sarebbe stato opportuno che se ne occupasse una procura di fuori». Un’ombra che pesava sulla città che per un decennio aveva ignorato le tante denunce presentate da cittadini e associazioni ambientaliste sulla discarica che cresceva sulla collina. Un sospetto che si rafforzò quando si scoprì che alcuni ufficiali di polizia giudiziaria svolgevano un secondo lavoro pomeridiano negli uffici di Orazio Duvia, il padrone di Pitelli. Ci vorranno novanta giorni ora per poter leggere le motivazioni di una sentenza che – codice alla mano – lascia aperta la porta del dubbio. I giudici dovranno chiarire perché non può essere considerato «disastro ambientale doloso» lo sversamento continuo e indisturbato di veleni per i vent’anni di funzionamento della discarica. Dovremo capire per quale motivo Orazio Duvia confessò, quando venne arrestato nel 1996, di aver sistematicamente corrotto «funzionari istruttori, dipendenti di enti pubblici, partiti, politici con ruoli decisionali», come si legge nel rinvio a giudizio. Una accusa, quella di corruzione, che venne confermata dal ritrovamento di un vero e proprio brogliaccio delle tangenti, un libro a partita doppia dei soldi versati per anni. Un reato finito in prescrizione, già diversi anni fa.

Alla fine della fase preliminare del processo era rimasto in piedi solo il reato di disastro ambientale doloso, che, per la sua gravità, ha tempi di prescrizione molto più lunghi. Un vero e proprio macigno che pendeva sulla testa degli undici imputati coinvolti. Non tutti si sentivano così sicuri di arrivare ad una assoluzione, di fronte alla gravità delle accuse: Giancarlo Motta – uno dei principali soci di Orazio Duvia nella Sistemi Ambientali, l’impresa che ha gestito l’ultima fase della storia di Pitelli – aveva chiesto di poter patteggiare. Non ci fu l’accordo con la Procura, che riteneva la pena proposta eccessivamente ridotta. Un episodio processuale che oggi suona come una beffa. Le udienze si sono svolte nella sostanziale indifferenza della città.

Il principale imputato, Orazio Duvia, non si è mai fatto vedere in Tribunale, preferendo mandare il suo braccio destro Franco Bertolla ad annotare quello che accadeva. Non sono solo gli imputati i grandi assenti. Buona parte delle testimonianze sono state titubanti, non confermando molto spesso il quadro emerso durante le indagini preliminari. «Spesso i testimoni venivano ammoniti che quello che avrebbero dichiarato poteva essere utilizzato contro di loro», ricorda Corrado Cucciniello dei comitati di Pitelli. Il collegio non ha poi ritenuto di ammettere la visione di un video realizzato dalla Forestale di La Spezia, che descriveva nei dettagli come si era trasformata la collina dei veleni. Immagini che potevano creare suggestione, venne detto.

Eppure le indagini condotte dalla forestale di La Spezia erano state puntigliose, precise nella descrizione dei rifiuti accolti dalla discarica di Pitelli. «Tre milioni di kg di rifiuti tossico nocivi, scarti di specialità medicinali dell’industria farmaceutica, 17.800 tonnellate di scorie da attività di termodistruzione di rifiuti solidi urbani, 116 tonnellate di fanghi, solventi vari quali toluene, xilene e benzene, fusti contenti terre di bonifica, solventi organici, ceneri leggere, fibrocemento, polveri di abbattimento dei fumi di fonderia, scorie alluminose e altro materiale non identificato», recitava il capo di imputazione. Sostanze in grado di distruggere ogni forma di vita dove venivano sversate. O di uccidere, se inalate o ingerite da un essere umano. Indagini che non sono bastate per accertare il disastro ambientale. È impressionante oggi scorrere il libro nero di Pitelli, ovvero la cartina d’Italia virtuale che mostra la provenienza di buona parte dei rifiuti tossici.

Oltre a La Spezia i luoghi d’origine dei veleni di Pitelli andavano dalla Lombardia alla Toscana, dal Piemonte al Molise, in una sorta di nodo centrale dove confluivano carichi di veleni e interessi mai approfonditi fino in fondo. Un centro di interessi dove doveva terminare l’ultimo viaggio del capitano De Grazia, morto sulla strada per La Spezia, alla ricerca di una verità ancora lontana.

di Andrea Palladino – www.ilmanifesto.it

La Spezia avvelenata

22 novembre 2010, by  
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tratto da Il Manifesto del 21 novembre 2010

Dopo 14 anni si avvicina alla sentenza il processo per la devastazione della collina di Pitelli, sopra il golfo di La Spezia. Una zona grande quattro volte Porto Marghera, per anni sommersa di ogni genere di rifiuti industriali

In quattordici anni il mondo è cambiato. Tre guerre, l’11 settembre, due governi Berlusconi, Prodi, D’Alema e ancora Prodi. Quattordici anni è la durata del processo per la devastazione di una collina sul Golfo di La Spezia, Pitelli, forse la più grande discarica industriale italiana. Un tempo che serve l’impunità di fatto assoluta per il traffico dei rifiuti pericolosi in Italia, che la Cia stimava in 80 milioni di tonnellate negli anni ’90 e che oggi quasi nessuno conta più. Ovvero quella sorta di impunità che ha riguardato gran parte delle inchieste per le rotte dei veleni dell’Italia degli ultimi decenni. Archiviati i processi per la nave Rosso spiaggiata ad Amantea, archiviati i processi per le navi a perdere, senza colpevoli e, soprattutto, senza mandanti gli omicidi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in un agguato mentre seguivano le tracce dei traffici di rifiuti verso la Somalia. Prescritto il processo contro i responsabili dei viaggi delle navi dei veleni degli anni ’80, quando l’Italia esportava tonnellate di scorie verso l’Africa e il Sud America. E ora il processo di Pitelli, vicino alla sentenza di primo grado dopo più di un decennio di udienze e prossimo alla prescrizione.

Nell’auletta della sezione penale di La Spezia sono passati quasi una trentina di imputati, decine di avvocati, almeno due generazioni di magistrati. E la storia di una città, simbolica e volutamente dimenticata.

Il sistema Duvia

Nell’ultima udienza dedicata alla discussione delle parti civili l’avvocato Roberto Lamma, per Legambiente, ha ricostruito pezzo dopo pezzo il sistema di Orazio Duvia, il dominus di Pitelli: «C’è una strategia di fondo in questa storia che si basa sull’opacità del sistema di gestione dei rifiuti. Una strategia del fatto compiuto». Ed è questa la chiave che può spiegare perché ancora oggi la gestione delle scorie industriali e perfino della comune monnezza è un’eterna emergenza e il miglior business italiano. Era l’agosto del 1976 quando Orazio Duvia chiese in sostanza di poter sistemare la collina di Pitelli – che per il piano regolatore era interamente destinata a verde, con un valore paesaggistico vincolante – buttando qualche rifiuto inerte. Qualche calcinaccio, un po’ di sabbia, tutta roba innocua, giurava. «Poi va oltre – ha raccontato Lamma – e arriva il fatto compiuto». A Pitelli scaricano camion di rifiuti di ogni genere, mentre il Comune di La Spezia si preparava ad accettare quel fatto compiuto, architrave del sistema Duvia. Il principio che andrà avanti fino al 1996 sarà sempre lo stesso: prima vengono sversati i rifiuti, poi Comune e Provincia sanano il tutto, con autorizzazioni ex post.

Il risultato del sistema Duvia è ora quell’enorme area contaminata che sovrasta il golfo dei poeti. «Una zona grande come quattro Porto Marghera messe insieme – sottolinea l’avvocato di Legambiente – ovvero il secondo sito d’interesse nazionale dopo l’Acna di Cengio». Una devastazione che forse non ha eguali nella storia italiana e che ora sarà impossibile risanare.

Un’incredibile coincidenza

Gli anni ’80 e i primi anni ’90 sono stati i peggiori. Il traffico dei camion carichi di scorie industriali aumentava mese dopo mese, riempiendo quattro crateri. La prima buca, la più antica, che non ha mai avuto un isolamento dal terreno e dalle falde acquifere venne coperta con altri tre invasi, messi uno sopra l’altro, come in una torre devastante per l’ambiente del golfo di La Spezia. Oggi è impossibile andare a vedere cosa è nascosto in quella prima fossa e riuscire a risanare è un’impresa senza nessuna possibilità di successo. Le conseguenze colpiranno intere generazioni, per decenni.

Alla fine del 1984 il pretore di La Spezia Attinà firmò quello che fu l’unico sequestro – fino al 1996, data della chiusura della discarica – dell’enorme invaso di Pitelli. Oggi l’anziano magistrato ricorda ancora quegli anni. «C’erano degli evidenti abusi e per me fu naturale ordinarne la chiusura», spiega. «Dopo poco passai al giudicante – ricorda – e un altro magistrato dispose la riapertura». Salta così agli occhi una incredibile coincidenza, temporale ma significativa. La chiusura momentanea della discarica di Pitelli – dal 1984 al 1986 – coincide chirurgicamente con l’epoca dei viaggi delle navi dei veleni, che iniziarono a caricare i rifiuti tossici dell’industria del nord Italia sulla banchina del porto di Marina di Carrara, distante pochi chilometri da La Spezia. Coincidenze? Forse, ma sembra evidente che le rotte dei veleni rispondessero ad un’unica regia, rimasta ancora oggi oscura.

Il sistema di corruzione

Non è possibile capire il caso Pitelli senza guardare quella sorta di libro mastro delle tangenti trovato negli uffici di Orazio Duvia durante le perquisizioni ordinate dal Pm di Asti Luciano Tarditi nel 1996. C’erano politici, funzionari pubblici, militari, decine di persone pagate dal re delle scorie di Pitelli. «Tutti reati oggi prescritti – spiega l’avvocato Roberto Lamma – ma necessari per capire storicamente quello che è accaduto». Ed è significativo l’episodio che Roberto Lamma ha ricordato nella sua ricostruzione dei fatti: «Questo foglio battuto a macchina è il primo esposto che presentammo come Legambiente nel 1988», spiega al collegio mostrando le pagine ormai ingiallite, simili alle antiche veline usate dai dattilografi. Un esposto dettagliato, minuzioso che avrebbe potuto fermare la distruzione della collina di Pitelli forse al momento giusto. Peccato, però, che quel fascicolo sparì. «Quando iniziammo l’inchiesta – ricorda Benito Castiglia, oggi comandante del Corpo forestale dello stato di La Spezia – la prima cosa che facemmo fu di verificare tutti i procedimenti a carico del gruppo di Orazio Duvia». Nel registro c’erano le tracce dell’esposto del 1988, ma tutte le carte erano sparite dai locali del Tribunale. Una minima parte del fascicolo venne ritrovato a casa di uno degli arrestati, ma non fu possibile ricostruire le eventuali complicità all’interno del palazzo di Giustizia. L’unica imputazione non prescritta è la più grave, il disastro ambientale doloso. Arrivare alla condanna è fondamentale per, almeno, stabilire una verità storica, per chiudere con dignità questa pagina terribile della storia della città di La Spezia. Ma soprattutto dovrà servire per rompere la lunga catena dell’impunità, quella sorta di licenza ad inquinare che ancora oggi è la principale causa della devastazione ambientale in Italia.

Andrea Palladino

Pitelli dei veleni

24 settembre 2010, by  
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di Andrea Palladino – tratto da Il Manifesto del 24 settembre 2010
Ci sono stanze nel nostro paese dove con lavoro certosino e sistematico – quando gli occhi indiscreti sono lontani – qualcuno disfa la complessa tela di Penelope. Ci sono segreti che ormai appartengono alla storia della Repubblica ed altri che ancora oggi avvelenano la nostra vita. La storia dell’immenso e strutturato traffico delle scorie tossiche e radioattive non ha un colpevole. Ha, però, migliaia di vittime, dalle coste della Calabria fino alle colline liguri, dove ogni giorno si contano nuovi casi di tumori, dove il futuro stesso dell’Italia viene sacrificato alla ragion di Stato dei traffici più oscuri. La tela fitta delle rotte dei veleni ha una capitale, non dichiarata, ma ben conosciuta. Ha un nome sublime, incredibilmente bello, il golfo dei poeti. Sono le colline quasi brutali che scendono sulla città di La Spezia, arrivando a specchiarsi tra i cantieri navali, le basi militari, il porto. Dalla città, verso Lerici, si dipana una sorta di budello, una piccola strada che si attorciglia su Pitelli. Un nome che riporta alla storia delle navi a perdere, dei vascelli fantasma affondati nel Mediterraneo.
Pitelli è forse la più grande discarica di scorie tossiche d’Europa. Dal 1997 è anche l’unico processo sui grandi traffici di rifiuti che non è finito archiviato. È stato un procuratore venuto da un’altra regione, il Piemonte, a scoperchiare la cappa di omertà che dagli anni ’70 schiacciava Pitelli e la città di La Spezia. Luciano Tarditi – il pm di Asti che probabilmente sfiorò una parte della verità sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin – ha cercato di darsi una spiegazione su questo paradosso giuridico: «Fu illuminante per noi il discorso che proveniva da una persona della quale avevamo e abbiamo la massima stima, il dottor Franz: “Se lavorate voi da fuori, è molto meglio”», spiegò in una commissione parlamentare pochi anni fa. Perché dietro i veleni di Pitelli si nascondono patti che nessuno può raccontare, gruppi di pressione talmente forti da condizionare interi pezzi delle istituzioni. Le indagini partirono quasi per caso, quando Tarditi stava indagando su un traffico di rifiuti nella zona di Asti. Seguendo le rotte delle scorie scoprì il ruolo che la collina di Pitelli svolgeva nella vasta rete dei monnezzari italiani ed europei. Indagò sul dominus di quella discarica, Orazio Duvia, trovando la contabilità in nero che per decenni aveva alimentato la politica complice, silenziosa, connivente della città. Una rete di legami che partiva dal gruppo Duvia e che non risparmiava nessuno, neanche l’allora partito comunista.
Il peso di quella discarica incastonata nella collina di Pitelli risultò chiaro quando il Corpo forestale dello Stato e i periti entrarono nella zona dove funzionavano i bruciatori, tra i piazzali dove venivano accumulati i bidoni, in mezzo ai campi intrisi di sostanze pericolosissime. Basta un nome per fare accapponare la pelle: tra il 1983 e il 1985 – si legge sull’ordinanza di rinvio a giudizio dei gestori della discarica – furono sversate «sostanze chimiche di laboratorio, provenienti dalla ditta Union Carbide Unisil Spa di Termoli». La stessa società che a Bophal, in India, uccise 2.259 persone, nel 1984. E poi solventi organici delle industrie farmaceutiche, ceneri delle centrali Enel, amianto della Nuova Sacelit, fanghi di risulta, polveri di abbattimento dei fumi, ceneri pesanti degli inceneritori, fanghi organici e rifiuti speciali vari, pulper, toner esausti e – probabilmente – diossine arrivate da Seveso. Una lista infinita e parziale, perché ci sono aree dove nessuno riuscì a verificare quello che era stato sversato.
Il pm Luciano Tarditi aveva ben chiaro il peso di quell’inchiesta. «Dobbiamo ricordarci che quella zona ha un alto valore strategico e militare», raccontò durante un’audizione davanti a una delle tante commissioni parlamentari che hanno indagato sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e sul traffico di rifiuti. È il contesto di Pitelli, la sua posizione geografica, la fitta rete di tunnel e bunker di origine militare che la collegano con la Marina a far capire che questa non è una storia qualsiasi di veleni e criminali. «Fu segnalata – racconta Tarditi – la presenza di numerose gallerie. La fonte ci disse chiaro e tondo che si trattava di tunnel di collegamento fra le polveriere della Marina, risalenti al periodo bellico, che contenevano (…) in particolare nervini radianti». Una vicinanza tra la gestione della discarica e la Marina militare che ancora oggi pone non pochi interrogativi: «Nel libro paga di Orazio Duvia – spiegò il magistrato davanti alla commissione parlamentare sui rifiuti – figuravano ufficiali ed esponenti della Marina e lo stesso Duvia gestiva lo sgombero degli Rsu dall’arsenale».
Tra le carte che passarono sulla scrivania della Procura di Asti in un’altra inchiesta sul traffico di rifiuti verso la Somalia c’era, tra l’altro, un rapporto pesante, firmato da ufficiali della Direzione investigativa antimafia di Genova. Anche in questo caso la città di La Spezia, con le sue reti invisibili di complicità, era al centro dell’attenzione: «È chiaro il ruolo dei massoni spezzini quali mittenti di materiale bellico nell’area del corno d’Africa-Somalia», scrivevano il 19 maggio del 1997 gli investigatori della Dia. Nel rapporto erano poi analizzate le informazioni confidenziali provenienti dalla Somalia, con i punti di interramento delle scorie nucleari, i dettagli dello scambio immondo tra aree destinate a contenere i rifiuti e le armi del nostro made in Italy. Traffici che ruotavano attorno a La Spezia, tra le fabbriche d’armi, i cantieri navali, i moli riservati e i veleni di Pitelli.
La Spezia era anche la meta finale dell’ultimo viaggio del capitano di vascello Natale De Grazia, morto, forse avvelenato, il 13 dicembre del 1995. Era nel porto sovrastato dalla collina dei poeti che si nascondeva – e ancora si nasconde – la chiave per capire che fine hanno fatto decine di navi sparite in mare, probabilmente cariche di scorie. Da La Spezia partì la Jolly Rosso della compagnia Ignazio Messina, diretta a Beirut per recuperare i fusti tossici inviati in Libano dalla Jelly Wax, società protagonista dei viaggi dei veleni verso l’Africa e l’America Latina negli anni ’80. Ed è sempre da La Spezia che la stessa nave, dopo aver cambiato nome in Rosso, ripartì dopo più di un anno, per poi spiaggiarsi vicino ad Amantea. Una nave che il Sismi teneva sotto costante controllo fin dal 1988 – come si può leggere nei rapporti firmati dall’agente Ettore, pubblicati nei mesi scorsi nel libro Avvelenati dei giornalisti calabresi Giuseppe Baldessarro e Manuela Iatì – e finita nell’inchiesta del capitano De Grazia. Un caso, quello della Rosso, archiviato nel maggio dello scorso anno, come gran parte dei processi sulle navi e sulle rotte dei veleni.
Le udienze di primo grado per Pitelli sono riprese lunedì scorso davanti al Tribunale di La Spezia. La sentenza dovrebbe arrivare entro la fine di quest’anno. Gran parte dei testimoni – ex lavoratori della discarica – durante il processo spesso si sono tirati indietro, forse seguendo suggeritori interessati. Nessuno parla a La Spezia di quello che accade dove difficilmente lo sguardo troppo indiscreto della stampa può arrivare. Nessuno racconta quello che oggi avviene nel Porto, tra le gru che caricano i container, sui moli dove arrivano le navi con le bandiere degli stati più improbabili. Qualche giorno fa qui è morto un portuale, una delle tante morti bianche dei nostri porti. Al sit-in organizzato dal Prc c’erano appena una ventina di persone: nessun sindacato, nessun lavoratore. Non c’è la forza storica dei camalli di Genova, il porto è gestito da decine di piccole aziende dove spesso i diritti non valgono nulla.
Quella che appare nel processo in corso è probabilmente solo una piccola parte della verità. Fonti confidenziali – che mai hanno avuto il coraggio di deporre davanti ai magistrati – hanno raccontato di una vera e propria seconda Pitelli, nascosta nelle gallerie militari: «Qui si nascondono i peggiori veleni, come le armi chimiche dismesse». Voci, solo voci, sospetti che mai nessuno ha potuto andare a verificare, anche perché a chi svolgeva l’inchiesta venne opposto il segreto militare, come ricordò l’ispettore della forestale De Podestà alla commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti guidata da Massimo Scalia.