Consolo (Prc-Se): “Venezuela tra pirati, covid e sanzioni”

27 luglio 2020, by  
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Se non fosse seria, ci sarebbe da ridere per l’ipocrisia cinica dell’impero. Da quasi 20 anni Washington e Londra (e la Unione Europea) si comportano con il Venezuela di Maduro come i vecchi corsari.

In ordine di tempo, l’ultima misura del 2 luglio scorso è la decisione di un giudice britannico di non restituire 31 tonnellate di oro depositate dal Venezuela nella Bank of England, per un totale di circa 1 miliardo di dollari. La motivazione ufficiale del giudice e dei banchieri di “Sua Maestà” è che il governo britannico non riconosce il governo costituzionale di Nicolàs Maduro, bensì il fantoccio autoproclamato Juan Guaidò. Lo scorso marzo il Venezuela aveva richiesto un prestito di emergenza al Fondo monetario internazionale (FMI) per combattere il Covid-19, prestito negato sotto la pressione degli Stati Uniti. Anche in questo caso, la “giustificazione” del FMI era non riconoscere Nicolás Maduro come legittimo Presidente.

Nella loro ossessione di asfissiare Caracas, le diverse amministrazioni statunitensi e britanniche hanno seguito un copione di attacchi in crescendo in un quadro di “guerra multi-dimensionale”: mediatica, militare, diplomatica, commerciale, finanziaria, etc. Come negli assedi del medioevo per espugnare i castelli del nemico, si cerca di prendere per fame e stenti la popolazione. Salvo poi invocare la “crisi umanitaria” e la necessità di un intervento militare straniero. Parallelamente agli interventi militari (a maggio l’ennesimo tentativo con la “Operaciòn Gedeón”), gli ultimi attacchi si sono concentrati sul versante commerciale e finanziario, realizzando un vero e proprio “bloqueo”, come nei confronti di Cuba. Un bloqueo che si è fatto più aggressivo dopo l’annuncio del Venezuela di abbandonare il dollaro nelle transazioni commerciali e l’adozione di una cripto-moneta nel commercio internazionale.

Pochi giorni fa, casualmente dopo l’annuncio di prossime elezioni (previste per il 6 dicembre), in linea con gli Stati Uniti, l’Unione Europea ha annunciato nuove sanzioni, non solo contro rappresentanti del governo, ma anche contro dirigenti dell’opposizione, colpevoli di non essere d’accordo con la strategia violenta e golpista delle frange estremiste dell’opposizione.

Ma andiamo con ordine.

Le ostilità sono iniziate sin dalla vittoria elettorale di Chavez del 1998, ben prima dell’autoproclamazione di un oscuro personaggio alla presidenza del Venezuela del gennaio 2019. La vittoria di Chavez ha fatto perdere a Washington il controllo della “Venezuela saudita”, un Paese con le riserve petrolifere accertate più grandi del pianeta e a solo due giorni di navigazione dalle raffinerie della West Coast statunitense. Una situazione inaccettabile per le voraci multinazionali del petrolio, che da allora hanno fatto di tutto per arraffare il bottino perduto. In un crescendo di azioni aggressive (tra le quali la caduta pilotata dei prezzi del greggio) dopo la scomparsa di Chavez, è il governo Maduro che subisce i colpi più pesanti. A partire dal marzo 2015, con l’ “Ordine Esecutivo 13692” di Barack Obama, poi riconfermato anche da Donald Trump. Il decreto presidenziale dichiara il “Venezuela una minaccia inusitata e straordinaria per la sicurezza degli Stati Uniti”, dando un manto legale ad operazioni mediatiche, politiche, diplomatiche, finanziarie, militari e paramilitari, rimaste coperte da molto tempo. Le rivelazioni di Wikileaks, i documenti declassificati del governo statunitense e l’ultimo libro (The Room Where It Happened)di John Bolton, ex consigliere per la sicurezza nazionale, ne hanno confermato l’esistenza.

In un primo momento le misure di ritorsione sono state applicate a persone legate o vicine al governo, politicamente o per motivi economici, (comprese aziende), oltre che a funzionari civili e militari, In seguito, si è deciso di “costringere l’economia ad urlare”, come suggerì Nixon a Kissinger all’indomani della vittoria in Cile del socialista Salvador Allende, per proteggere gli interessi economici delle multinazionali statunitensi. E così, dalle persone singole si è poi passati al commercio e alla finanza, colpendo l’intera economia e quindi la totalità della popolazione nei suoi bisogni essenziali.

Le moderne “sanzioni” cercano di portare il Paese al collasso politico e sociale, ostacolandone il commercio ed impedendo l’importazione di cibo, medicine e beni essenziali, o bloccando i fondi destinati al loro acquisto, per far sì che la popolazione si ribelli contro il governo. In tempi di Covid-19 questa strategia è ancor più criminale. La lista delle misure è lunga e non esaustiva. Ma mettendoli in fila, le cifre ed i fatti parlano da soli.

Per esempio il Citybank statunitense non ha voluto ricevere i fondi per l’acquisto di 300.000 dosi di insulina per diabetici, in aperta violazione della legislazione internazionale.

Il governo colombiano ha bloccato l’acquisto di medicine contro la malaria acquistati dal Venezuela all’impresa BSN Medical. Oltre 9 milioni di dollari per la realizzazione di dialisi e 29,7 milioni di dollari destinati all’acquisto di cibo sono stati bloccati.

Nel settore delle “stanze di compensazione” agiscono in situazione di duopolio Clearstream e Euroclear. Parliamo di due colossi tra le “agenzie di cambio”, intermediari finanziari tra i governi che emettono obbligazioni e i possessori di titoli che incassano le cedole. La prima ha sede in Lussemburgo, la seconda a Bruxelles.

Il governo Maduro ha sempre onorato i suoi debiti, ma Clearstream non ha pagato agli azionisti gli interessi sui titoli (per esempio nel caso delle obbligazioni Pdvsa con scadenza 2019 e 2024). Con pressioni e ricatti, alcuni fondi statunitensi hanno “suggerito” di realizzare verifiche sulla “regolarità dei versamenti venezuelani”, congelando i pagamenti dei dividendi con una procedura poco comune i.

Su pressioni del Dipartimento del Tesoro statunitense, l’altro colosso Euroclear (custode di una parte importante dei titoli sovrani del Venezuela), dal 2017 ha congelato le operazioni sulle obbligazioni per ragioni di “revisioni” e “motivi procedurali”. I ladri dal colletto bianco bloccano così più di un miliardo e 200 milioni di dollari venezuelani destinati all’acquisto di cibo e medicine.

Sul versante britannico, i moderni corsari mettono a segno un colpo grosso. Nel passato i corsari erano famosi per i loro assalti negli oceani per conto di “Sua Maestà”. Nel presente, rinverdendo le tradizioni di servizio, la Bank of England si è inizialmente rifiutata di restituire 14 tonnellate di lingotti d’oro (circa 550 milioni di dollari) depositate dal Venezuela a Londra.

Alle prime 14 tonnellate d’oro, se ne sono aggiunte altre 17, date in garanzia alla Deutsche Bank, che ha chiuso unilateralmente un contratto “swap” con Caracas (garantito appunto dai lingotti), e li ha gentilmente girati ai britannici sul conto londinese. In altri termini, la Banca Centrale Venezuelana (BCV) non solo ha dovuto ripagare in valuta pregiata il prestito ottenuto, ma non è rientrata in possesso della garanzia. Insomma, la Bank of England è protagonista di un doppio furto da ladri in doppiopetto, di un’ operazione di pirateria internazionale con lo zampino della Casa Bianca.

Come si ricorderà, nel 2011 Hugo Chavez aveva cercato di rimpatriare 211 tonnellate d’oro inviate dai governi della IV Repubblica in Inghilterra e in altre banche del mondo, come garanzia per i prestiti erogati dal Fondo Monetario Internazionale ai governi di Jaime Lusinchi nel 1988 e di Carlos Andrés Pérez nel 1989. Ma Caracas non è riuscita a rimpatriare i lingotti nella loro totalità.

E secondo il servizio finanziario di Bloomberg, le obbligazioni del luglio 2018 quotate nelle borse internazionali, avevano perso almeno il 57,24%.

Nel marzo 2018, Trump rinnova i decreti 13692 e 13808 e rilancia con nuove misure coercitive unilaterali, vietando la ristrutturazione del debito e impedendo il rimpatrio dei dividendi della CITGO, filiale della compagnia petrolifera statele venezuelana. A seguire, il Dipartimento del Tesoro statunitense allerta le istituzioni finanziarie sul “possibile legame con la corruzione delle transazioni pubbliche” venezuelane. Si rende ancor più difficile pagare i fornitori di beni essenziali, come cibo e medicine.

Nel gennaio 2019 la Casa Bianca ha annunciato nuove “sanzioni” alla compagnia petrolifera statale Petróleos de Venezuela S.A. (Pdvsa) attraverso la sua filiale CITGO in Texas. Il bottino è di 7 miliardi di dollari in beni ed il blocco di altri 11 miliardi in esportazioni di greggio per il 2019. Il primo effetto è quello di rafforzare il furto di risorse e beni venezuelani negli Stati Uniti ed in altri Paesi, un processo iniziato con l’arrembaggio della CITGO, ma che ora copre tutti i beni venezuelani negli Stati Uniti e colpisce qualsiasi Paese o azienda che abbia rapporti commerciali con il Venezuela.

Il “colpo di Stato continuo” include inoltre sanzioni economiche ed un bloqueo finanziario che ha provocato perdite di 350 mila milioni di dollari in produzione di beni e servizi tra il 2013 ed il 2017, secondo uno studio del Centro Estratégico Latinoamericano de Geopolítica (Celag) ii.

Al colmo del cinismo, e a fronte del blocco di almeno 18 miliardi di dollari venezuelani da parte statunitense, il Segretario di Stato Mike Pompeo (ex capo della CIA) aveva promesso aiuti per 20 milioni di dollari per “aiuti umanitari”, ed il Canada altri 39.

Sebbene le “sanzioni” avrebbero effetto solo sul territorio degli Stati Uniti, in realtà vengono applicate anche nei Paesi terzi in base al principio della “extra-territorialità”. Attualmente, oltre 6.000 milioni di dollari del Venezuela sono bloccati illegalmente in banche internazionali private, al di fuori degli Stati Uniti iii.

Banche europee

Paese

USD

Euro

Novo Banco

Portogallo

1.547.322.175

1.381.290.997

Bank of England (Oro)

Regno Unito

1.323.228.162

1.181.242.780

Clearstream (Titoli debito)

Regno Unito

517.088.580

461.603.802

Euroclear (Titoli)

Belgio

140.519.752

125.441.664

Banque Eni

Belgio

53.084.499

47.388.410

Delubac

Belgio

38.698.931

 34.546.447

       

Banche non europee

     

Sumitomo

Stati Uniti

507.506.853

453.050.216

Citibank

Stati Uniti

458.415.178

 409.226.189

Unionbank

Stati Uniti

230.024.462

205.342.315

       

Altre banche e istituzioni

financieras

17 Paesi

654.142.049

583.951.123

Allo stesso modo, sono vietate le transazioni da parte di aziende o cittadini statunitensi con il Venezuela, estendendo questo ostacolo a Paesi terzi sotto la minaccia estorsiva di ricevere sanzioni.

E’ facile dar ragione al governo venezuelano: “se gli Stati Uniti vogliono davvero aiutare il Venezuela inizino a liberare i conti bancari bloccati” ha dichiarato il Ministro degli Esteri di Caracas all’assemblea dell’ONU.

Togliere immediatamente le “sanzioni”, pace, dialogo e rispetto per la sovranità sono l’unica via percorribile per sostenere il presente e il futuro della Repubblica Bolivariana del Venezuela.

https://www.celag.org/

Fonte: Campagna Internazionale contro le sanzioni al Venezuela

 

Marco Consolo

Responsabile Area Esteri e Pace PRC-SE

Acerbo-Consolo (Prc-Se): “E’ in atto una campagna di disinformazione contro il Venezuela”

17 giugno 2020, by  
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Non abbiamo alcuna informazione sulla notizia dei finanziamenti da parte del Venezuela a Casaleggio. Ma vogliamo essere sinceri: cosa ci sarebbe di male nel ricevere finanziamenti dal Venezuela di Chavez e Maduro quando nel nostro Paese abbiamo partiti come Lega e Fratelli d’Italia che se la fanno con l’ultradestra fascista di Bannon e Bolsonaro?
Come Rifondazione Comunista, che non ha mai ricevuto finanziamenti da governi esteri, se fosse vero quanto rivelato dal giornale spagnolo  del cui anticapitalismo non ci eravamo accorti. Tutta l’operazione dà l’idea di una grande bufala.
Non ci stupirebbe perché da anni a forza di fake news si conduce una guerra contro la democrazia in America Latina. E’ di pochi giorni fa l’ammissione da parte del New York Times che Evo Morales aveva vinto le elezioni in Bolivia e che i presunti brogli con cui si è legittimato il suo rovesciamento erano solo un’invenzione diffusa dai media.
La verità è che si sta approfittando di questo probabile falso per rilanciare la campagna di disinformazione sul Venezuela in corso da anni e che serve a coprire la guerra economica, le sanzioni ed il bloqueo, le azioni di vero e proprio terrorismo e l’opera costante di destabilizzazione realizzata dagli Stati Uniti che non si è allentata neanche durante questi mesi di pandemia. Hugo Chavez e Nicolas Maduro vengono presentati come dittatori, mentre si tratta di presidenti legittimamente eletti.
E come si ricorderà, Chavez è stato anche vittima di un golpe sostenuto dagli USA che fallì per l’immediata reazione popolare. Il popolo venezuelano soffre da anni le conseguenze di questa sfacciata aggressione. Dopo quello che è successo negli ultimi anni in Honduras, Paraguay, Ecuador, Cile, Brasile, Bolivia possibile che si continui a ripetere la propaganda di Washington sull’America Latina?

Basta con le sanzioni e con le fake-news contro il Venezuela!!!

Maurizio Acerbo, 

Segretario Nazionale

Marco Consolo, 

responsabile Area Esteri

Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

9 ottobre 1967-2012: “Hasta siempre, Comandante!”

9 ottobre 2012, by  
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I Giovani Comunisti spezzini ricordano Ernesto “Che” Guevara

Quarantacinque anni fa, “in un giorno d’ottobre, in terra boliviana” veniva assassinato a soli 39 anni Ernesto “Che” Guevara, tra i più grandi rivoluzionari di ogni tempo, simbolo della liberazione cubana dal giogo imperialista americano e icona della ribellione per decine di generazioni di giovani che da quasi mezzo secolo ne subiscono ancora l’irresistibile fascino.

I Giovani Comunisti spezzini, ricordando ancora con grandissima emozione l’incontro avvenuto nel 2009 a Levanto con il figlio del Che, Camilo Guevara March (nella foto al centro in maglia rossa) rendono omaggio al Comandante sottolineandone la straordinaria figura di intellettuale, combattente, medico, scrittore, ribelle, disinteressato ai beni materiali del potere che aveva conquistato con le armi e sempre teso alla ricerca di un nuovo obbiettivo, di un nuovo sogno, di una nuova liberazione.

Che Guevara ha preferito rinunciare alla prestigiosa carica di ministro cubano pur di tornare a combattere e trovare la morte solo con il tradimento e le trame ordite dalla Cia, mentre cercava di liberare la Bolivia come aveva fatto con Cuba otto anni prima.

Ucciso ma non sconfitto, perchè le sue gesta resteranno per sempre immortali.

Oggi infatti il modo migliore per celebrarne la memoria è festeggiare la vittoria di Hugo Chávez in Venezuela: la rivoluzione bolivariana continua quel processo di trasformazione sociale del continente latinamericano per il quale il Che ha lottato fino alla fine. Dopo 45 anni il sogno guevariano di avere un continente latinoamericano libero di decidere il proprio futuro al di fuori del dominio degli Stati Uniti si sta faticosamente realizzando.

Hasta siempre Comandante!

Giovani Comuniste/i La Spezia

L’Honduras tra repressione golpista e silenzio mediatico

7 febbraio 2010, by  
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Vogliamo aprire una rubrica inusuale per una federazione provinciale, ma che riteniamo indispensabile per aprire gli occhi (e la mente) e far si pre risolvere i problemi del nostro giardino ci si soffermi a conoscere e riflettere sulle problematiche di altre realtà del nostro pianeta. Lo facciamo facendo un patchwork letterario del lavoro di Gennaro Carotenuto, sull’analisi di cosa sta succedendo in una delle (tante) dimenticate tragedie del mondo: l’Honduras.

Capitolo 1: un paese normalizzato o un paese che non dimentica il golpe?

TEGUCIGALPA, 26 gennaio. – Sembra tutto pronto a Tegucigalpa per voltare pagina. Domani con una grande festa nello stadio nazionale, ci sarà il passaggio di poteri dal dittatore di Bergamo Alta, Roberto Micheletti a Porfirio “Pepe” Lobo. Sarà una grande occasione per rappresentare la nuova “pax americana” in Centro-America e per alcuni paria, come il presidente taiwanese, che ben raramente viene invitato ad eventi internazionali. Ma molte cose non quadrano e per le strade di Tegucigalpa si vedono i segnali che da tutto il paese l’opposizione democratica saprà dimostrare ancora una volta la sua forza.

Muoversi per le strade di Tegucigalpa, anche in queste ore, vuol dire trovare una città viva, insolitamente più vivibile rispetto alle altre capitali centroamericane. Ma, rispetto alla martellante campagna dei media ufficiali, che magnificano la forza della democrazia honduregna, e non fanno parola né sul caso Zelaya, né sulla grande manifestazione dell’opposizione democratica prevista contemporaneamente al dubbioso e illegittimo trasferimento di poteri, qualcosa sembra non quadrare.

Il primo punto che non quadra è il fatto che Micheletti, il golpista del 28 giugno, non si è mai dimesso. Semplicemente è andato via dal palazzo di governo. Ieri, lunedì, non ha presenziato all’entrata in carica degli amministratori locali, anche se ha mandato una lettera e ha ricevuto un applauso a scena aperta dai politici espressione della classe dirigente honduregna che ha appoggiato il golpe. Non dovrebbe esserci neanche domani a sentenziare con la sua assenza la stravaganza di un passaggio di poteri da un golpista a un presidente eletto in elezioni non democratiche e senza opposizione né osservatori internazionali.

Da parte sua il nazionalista Porfirio Lobo ce la mette tutta per legittimarsi anche nel consesso internazionale. Firmando una amnistia (domattina) vuol chiudere le sanguinose vicende del colpo di stato con la lacrimevole retorica sulla famiglia honduregna che deve riunirsi e che travolge ogni considerazione sull’impunità per le decine di vittime del golpe. Facendo uscire Manuel Zelaya dall’ambasciata brasiliana, dove è rifugiato da mesi, per recarsi in esilio nella Repubblica dominicana, vuol risolvere la più spinosa delle questioni aperte.

Proprio il presidente dominicano Leonel Fernández, che porterà con sé Zelaya al ritorno, è probabilmente il più importante degli ospiti internazionali che presenzieranno al trasferimento di poteri. Con lui il panamense Martinelli, il guatemalteco Colom, il salvadoreño Funes e pochi altri tra i quali il presidente taiwanese, paese riconosciuto dall’Honduras fin dagli anni ’60. Non inganni però questa sparuta e poco qualificata avanguardia: in molti, gli Stati Uniti in primo luogo, ma compresi anche i paesi integrazionisti latinoamericani, aspettano da Lobo appena qualche segnale per poter salire dal cul de sac del golpe e riprendere il tran tran che dura dall’82 di una “democrazia protetta” per l’Honduras.
Chi non ci sta è l’opposizione democratica. Già nelle stazioni degli autobus incontriamo le avanguardie di quella che si preannuncia una grande manifestazione. “Saremo tanti come mai”. “Ci reprimeranno ma non ci fermeranno”. Tra le parole d’ordine continueranno a chiedere (inascoltati) un’Assemblea costituente. Saremo con loro domani.

Capitolo 2: 132 morti il bilancio della dittatura

TEGUCIGALPA. Secondo le organizzazioni in difesa dei diritti umani honduregne e in particolare per il presidente del CODEH Andrés Pavón, che ha tenuto una conferenza stampa in merito, i golpisti in Honduras dal 28 giugno ad oggi avrebbero ucciso 132 persone e ferito almeno 453 altre. Di queste circa 30 sarebbero state uccise durante mifestazioni pubbliche e il resto assassinate da sicari, squadroni della morte o durante detenzioni arbitrarie.

Wendy Davila, è possibile citare solo alcuni dei 132 nomi, aveva 24 anni ed era una studentessa. E’ morta il 26 settembre a causa di un attacco respiratorio causato dal lancio di lacrimogeni da parte della polizia davanti all’Ambasciata brasiliana. Marco Antonio Canales, lo stesso giorno è stato assassinato da sicari mentre usciva dalla sede di Radio Globo. La lista prosegue per pagine e pagine.

Dal 28 giugno ad oggi in Horas vi sono stati almeno 3.033 arresti illegali documentati, 114 giornalisti aggrediti, 14 media chiusi e attualmente vi sarebbero ancora nelle carceri del paese almeno 114 prigionieri politici, un numero di molto superiore a quelli per i quali viene condannata Cuba e che tuttovia non commuove i grandi media internazionali.

Nonostante il complesso mediatico internazionale tergiversi e faccia credere che l’amnistia che proclamerà domani mercoledì il nuovo presidente Porfirio Lobo sia una concessione e si riferisca a presunti reati commessi dal deposto presidente Zelaya è in realtà ai crimini commessi dalla dittatura di Micheletti e in particolare ai 132 assassinii che l’amnistia è diretta. E’ parte infatti dei precisi accordi con  quali i due maggiori partiti del paese, il liberale ed il nazionale si sono divisii compiti. Il partito liberale ha realizzato il lavoro sporco, evitando che  arrivasse alla convocazione  dell’assemblea costituente, al prezzo di vittime citato, e il partito nazionale, complice in tutto, sistemerà le cose con una falsa discontinuità.

Le decine di organizzazioni democratiche che domani sfileranno per le strade della capitale si sono mostrate compatte nel ripudiare l’amnistia considerata un colpo di spugna. Non così la comunità internazionale che non vede l’ora di voltare pagina e che di quei 132 morti senza giustizia non sa cosa farsene.

Capitolo 3: L’Honduras volta pagina? Bilancio (finale?) del primo colpo di stato riuscito del XXI secolo

Varie chiavi di lettura descrivono il momento politico vissuto mercoledì 27 a Tegucigalpa dove nell’eclissi del dittatore Roberto Micheletti si è insediato il nuovo presidente Porfirio Lobo e dove il presidente legittimo, ma esautorato dal golpe, è partito per l’esilio acclamato dai suoi.

La prima chiave, con un golpe di stato conservatore completamente riuscito ed uscito di scena solo dopo aver portato a termine il proprio compito, è quella della sconfitta politica per la sinistra, che era al governo e lo ha perso, sia pur con la forza, e per la democrazia centroamericana tutta. Il successo del golpe è infatti un monito e un’ipoteca per l’America centrale (vi sono governi di centro-sinistra molto light sia in Salvador che in Guatemala) e per tutta l’America latina integrazionista.

Il 27 è stata dunque la giornata dell’insediamento di Porfirio “Pepe” Lobo, un conservatore come tanti eletto come quasi tutti in Centro America in elezioni farsa, alla presidenza della Repubblica. È stata anche la giornata della partenza per l’esilio dominicano di Mel Zelaya, accompagnato negli ultimi momenti in patria da tutto un popolo. È stata inoltre la giornata della normalizzazione hondureña, desiderata dalla comunità internazionale che pure aveva ripudiato il golpe e che ancora non riconosce il nuovo governo.  È stata poi la giornata dell’amnistia a Roberto Micheletti e ai suoi scherani che escono di scena secondo i dati del CODEH con 132 assassinii sulla coscienza.

È stato infine il giorno nel quale l’opposizione democratica, la Resistenza, rilancia, si ritrova e si riconosce e va verso la fondazione di un partito che vede nello stesso Mel Zelaya il leader naturale, l’unico in grado di aggregare forze molto eterogenee, classe media liberale, movimenti sociali, sinistra tradizionale. Qualcuno vorrebbe chiamarlo Partito Socialista Honduregno e dargli come primo obbiettivo l’Assemblea costituente, il motivo scatenante del golpe. È un progetto embrionale e probabilmente impraticabile e, nonostante l’evidente accumulazione di forze della sinistra e della Resistenza, per intanto tra i fatti va annoverata la sconfitta di un paese che fino al 28 giugno Emilio Fede avrebbe colorato di rosso e che adesso è blu cobalto.

FATTI

L’ultimo atto da presidente golpista di Roberto Micheletti, (il dittatore di Bergamo Alta noto da queste parti come Gorilletti o Pinochetti) è stato far uscire l’Honduras dall’ALBA, l’organizzazione di cooperazione tra stati capitanata da Venezuela, Bolivia, Cuba. Uno dei primi atti da presidente di Porfirio Lobo (laureato in economia a Miami, non è una colpa ma è un imprinting) è ricevere la delegazione dell’FMI chiamata a mettere in ordine alla maniera neoliberale nei conti del paese.

Si chiude così una tappa eccentrica della storia “catracha”. L’Honduras torna nell’alveo di quelle nazioni civilizzate che lasciano decidere della loro economia a banchieri del Nord, possibilmente bianchi, anglosassoni, protestanti. Così, per esempio, non si metterà in pratica il folle progetto di Zelaya di alzare il salario minimo a circa 320 Euro in un paese dove molti, scuri di pelle, indigeni e cattolici, non arrivano a 150 Euro per lavorare da sole a sole (Che roba contessa…). L’alternativa, nel programma del prudente Lobo, sarà donare una tantum 400 Euro alle 600.000 famiglie più disgraziate di un paese che ha l’80% di poveri.

Altro fatto è che martedì, poche ore prima di entrare in carica, Porfirio Lobo si è riunito con Arturo Valenzuela, massimo responsabile per la politica latinoamericana di Hillary Clinton. Hanno concordato un pacchetto di aiuti per 2 miliardi di dollari. Le male lingue ricordano che tali aiuti corrispondono all’800% di quanto gli Stati Uniti hanno stanziato per i terremotati di Haiti. Ogni cosa ha il suo prezzo (e per tutto il resto c’è Mastercard) ed evidentemente la vaccinazione dell’America Centrale dall’infezione “chavista”, dai medici cubani, dall’aumentare il salario minimo e da tutto quello che un tempo si sarebbe definita solo un po’ di redistribuzione keinesiana, vale per la signora Clinton ben più di quattro lumpen haitiani che pure sono buoni per sfolgoranti esibizioni in divisa da dama di San Vincenzo.

Il terzo fatto da sottolineare è l’amnistia votata dal parlamento e controfirmata da Lobo per i golpisti. È interessante come il complesso disinformativo mondiale racconti che questa sia una graziosa concessione per i crimini commessi da Mel Zelaya che hanno obbligato i militari a prelevarlo in pigiama da casa, sequestrarlo e portarlo oltre frontera e non per le migliaia di violazioni dei diritti umani commesse in questi mesi ed evidentemente incluse nell’amnistia solo per un disguido.

L’ultimo fatto è che se alla cerimonia hanno assistito appena tre capi di stato (Panama, Taiwan e Repubblica dominicana) tutti, non solo i paesi filostatunitensi e/o filogolpisti vedono nel riconoscimento di Porfirio Lobo, a breve o medio termine, l’unica possibile soluzione alla crisi. Succederà, forse prestissimo. Álvaro Uribe sarà qui ad ore.

EMOZIONI

Nello Stadio Nazionale, ancora intitolato a quel macellaio fascista di Tiburcio Carías, che fu dittatore negli anni ’30-’40, l’atmosfera era surreale. I fischi al presidente dominicano Leonel Fernández, venuto solo per accompagnare Zelaya in esilio nell’isola, testimoniavano come in quella cerimonia vi fossero due convitati di pietra: Roberto Micheletti e Mel Zelaya.

Micheletti, pur amnistiato, è tornato un paria. Una volta compiuta la missione nessuno in Honduras ha più difficoltà a riconoscere che quello del 28 giugno è stato un golpe brutale ed è particolarmente penoso ripercorrere come in questi mesi i grandi media “democratici” si siano arrampicati sugli specchi per negare questa realtà. È rimasto a casa per non compromettere Lobo, ma è stato come se ci fosse.

Zelaya dal canto suo non poteva esserci neanche volendo, ancora rinchiuso nell’Ambasciata brasiliana. Ha trasferito simbolicamente la sua fascia presidenziale non a Lobo ma al popolo hondureño che lo ha accompagnato all’aeroporto. Forse 100.000 persone hanno cantato, si sono emozionate, hanno pianto in un’atmosfera che aveva poco a che vedere con quella di sconfitta e con un futuro particolarmente incerto. La Resistenza è un fronte molto composito, forse troppo. Classe media liberale accomunata dal riconoscimento in Zelaya di un leader che ha rotto molti schemi. Sinistra moderata, sinistra tradizionale, sinistra bolivariana, movimenti sociali con una preponderante presenza femminile. Lumpenproletariato asfissiato dai propri problemi di sopravvivenza è che ha visto in Mel una speranza. Troppi soggetti e troppo diversi per piattaforme comuni e addirittura per un partito unico o per torcere il braccio a Lobo e obbligarlo a quell’Assemblea costituente che metterebbe in moto la democrazia nel paese.

Eppure quella folla eterogenea sembrava davvero un popolo unico, il popolo hondureño che si riconosceva nelle bandiere di Francisco Morazán, in quelle del Che, in quelle cubane, in quelle venezuelane e soprattutto in quelle brasiliane con quel verde oro che brillava nel cielo di Tegucigalpa.

Forse Mel Zelaya, un politico che fino a un paio d’anni fa non si era differenziato dal curriculum grigio se non nero della classe politica centroamericana, è davvero uscito di scena con l’esilio dominicano. Ma in quell’abbraccio di folla, in quegli slogan bolivariani, nella richiesta del suo ritorno, anche gli scettici (come un po’ chi scrive) hanno dovuto riconoscere che Zelaya è riuscito a sintetizzare le emozioni, i sogni, le aspirazioni di tutte quelle persone che, nel momento nel quale si ritrovano sconfitte politicamente, si scoprono anche forti nello stare e sognare insieme un Honduras diverso possibile. Le emozioni non sono fatti, ma a volte sono perfino più consistenti.

Capitolo 4: Pennellate dall’Honduras (la lotta e la repressione continuano)

Non avevo mai visto aspirare colla. Tantomeno in strada, nel centro di una capitale come Tegucigalpa, in pieno giorno. Qui si vede con facilità. A me prende alla bocca dello stomaco, ai ragazzini al cervello.

Ho capito, documenti alla mano, perché il cardinal Oscar Maradiaga, la speranza progressista nell’ultimo conclave, ha appoggiato i golpisti. Dal ‘98 il governo gli passava un appannaggio per spese personali di 100.000 lempiras al mese in un paese dove molta gente non arriva a 3.000. Mel Zelaya aveva osato eliminare questo appannaggio e il cardinale gliel’ha giurata. Ci sono anche storie su ricatti dell’Opus Dei, ma non sono in grado di verificare.

Quello che è sicuro è che in pochi mesi di dittatura l’Opus Dei ha ottenuto la proibizione della pillola del giorno dopo e il carcere per le donne che abortiscono. E ovviamente tutti i finanziamenti di Zelaya per le questioni di genere sono spariti chissà dove.

Ieri mattina alle otto, primo giorno di servizio per il nuovo (vecchio) ministro degli Interni, le strade erano piene di soldati in applicazione alla nuova politica di “mano dura”. Ieri sera i posti di blocco erano ovunque. Finalmente si fa sul serio contro i narcos? A guardare i giornali di destra di oggi hanno scoperto un lanciagranate fuori dalla finestra di un dirigente della Resistenza contro il golpe. Si fa sul serio nel criminalizzare la Resistenza.

Le pauperrime donne indigene coinvolte nei programmi di alfabetizzazione in un paesino del Nord hanno cominciato a rinunciare. Una dirigente di un’associazione contro la violenza alle donne ha cominciato ad indagare: “è che se andiamo ai corsi di alfabetizzazione ci sequestrano e ci portano in Venezuela a fare da schiave a Chávez”.