Strage di via dei Georgofili ancora senza colpevoli, Lombardi: “Solidarietà a Giovanna Maggiani Chelli. Una vergogna il mancato raggiungimento della verità”

1 ottobre 2014, by  
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Esprimiamo tutta la nostra solidarietà a Giovanna Maggiani Chelli, presidentessa dell’Associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, dopo l’annullamento della sentenza di ergastolo dell’imputato Francesco Tagliavia.

A distanza di ventuno anni da quei tragici fatti che sconvolsero Firenze e l’intera Italia, riemersi oggi prepotentemente in primo piano in seguito alla scoperta della famigerata “trattativa” tra stato e mafia, la bomba che uccise dei ragazzi innocenti quel 27 maggio 1993 (tra cui il sarzanese Dario Capolicchio) rimane ancora senza un nome. Riteniamo tutto ciò indegno di un Paese che si reputi ancora civile.

Non vorremmo che si ripeta un film già visto, purtroppo troppe volte, in passato. L’esito processuale degli attentati che hanno coperto di sangue l’Italia, da piazza Fontana in poi, è sempre stato il solito: l’impunità è regnata sovrana, a dispetto dei tanti morti.

Qualcuno ne dovrebbe provare vergogna, mentre c’è ci prova solo rabbia e dolore.

Ci auguriamo che al più presto venga fatta giustizia sull’accaduto, nel rispetto delle vittime e dell’intero popolo italiano. Basta con i misteri, occorre solo verità.

Massimo Lombardi,
segretario provinciale
Rifondazione Comunista La Spezia

Ciudad Juárez: viaggio al termine del neoliberismo

26 marzo 2010, by  
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Proponiamo un reportage di Gennaro Carotenuto e Chiara Calzolaio da Ciudad Juárez

Prima parte

Il sogno dell’industrializzazione neoliberale si è trasformato in un incubo. Ciudad Juárez, frontiera tra il nord e il sud del mondo, la città delle “maquiladoras” e dei femminicidi è oggi la città più violenta del pianeta. Negli ultimi due anni la guerra tra narcos, nella quale è coinvolto come parte in causa l’esercito messicano, ha già causato 4.700 morti e 100.000 rifugiati.

Arrivando a Ciudad Juárez dal Sud, dalla mesoamérica cuore della nazione messicana, l’ultima ora di aereo mostra con crescente angoscia uno dei deserti più aridi del mondo. Non era così prima, raccontano i pochi juarensi che non sono immigrati. Juárez aveva appena 30.000 abitanti nel 1930, 300.000 nel 1970 e 1.5 milioni nel 2000 e ha perso varie battaglie per il controllo dell’acqua del Río Bravo con El Paso, l’ex quartiere dall’altro lato del fiume e che dal 1848 appartiene agli Stati Uniti.

Della vecchia e fertile valle di Juárez restano così appena i toponimi. Tra questi il Campo algodonero (campo cotoniero), dove nel 2001 furono trovati i resti di otto donne vittime di femminicidi. Nel novembre scorso la Corte Interamericana di Diritti Umani ha condannato il Messico per “indifferenza”: le donne stuprate e assassinate, giovani di classe umile, non valevano niente.

Dagli anni sessanta, e con più forza dalla firma del Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti nel 1994, sono immigrate a Juárez decine di migliaia di donne per lavorare nelle “maquiladoras”, le fabbriche di proprietà straniera che beneficiando di regimi fiscali speciali, offrivano bassi stipendi e scarsi diritti ma anche la speranza di un futuro migliore rispetto alla povertà del Messico rurale.

Le ragazze vittime dei femminicidi non valevano niente, come non valgono nulla i 4.700 morti ammazzati a Juárez dall’inizio del 2008, quando è cominciata una guerra per il controllo della piazza della droga più importante del paese ed è stato inviato l’esercito a giocare una sua propria partita. I conti li ha fatti per noi Ignacio Alvarado, giornalista di “El Universal”: “il 65% dei morti sono minori di 25 anni e sono figli o nipoti delle operaie delle maquiladoras”. È un dato che oltre a far emergere un’etnografia del massacro (ragazzi immigrati di seconda o terza generazione, figli di donne costrette a lavorare 14 ore al giorno, spesso senza padri) testimonia il fallimento di un modello di sviluppo.

Elizabeth Ávalos, sindacalista, ex-operaia, conferma: “oggi vivono a Juárez mezzo milione di giovani ai quali il modello neoliberale non ha mai offerto nulla, né istruzione, né salute, né lavoro e vedono nel narco l’unica possibilità di guadagno e riconoscimento sociale”. Coinvolti dai cartelli della droga, sono oggi perseguitati dall’esercito che li sequestra, li tortura e li assassina a centinaia al mese, senza che la grande stampa internazionale si indigni mai della condizione dei diritti umani in Messico. Oppure regolano i loro conti direttamente, trasformandosi precocemente in sicari o vittime di questi. Ciò in un contesto senza legge dove il collasso del sistema giudiziario della città è forse l’elemento più visibile del fallimento dello stato. È un collasso che va ben oltre l’impunità e la corruzione dilagante. Ne è prova il fatto che per tutti i morti di Juárez non ci sono più di 150 inchieste giudiziarie aperte.

E gli altri 4.550 cadaveri? Lo domandiamo al giurista Óscar Maynez: “Se l’omicidio è stato commesso con armi automatiche o semiautomatiche si dà per scontato che si tratta di un aggiustamento di conti tra narcos e non si procede”. Per quanto dura tale realtà possa già sembrare, un altro testimone, che ci chiede l’anonimato (tutti i nostri testimoni, anche quelli particolarmente qualificati e autorevoli, ce lo chiedono almeno per alcune parti del loro racconto), ci colloca in un contesto ancora più grave: “Nel 2008 l’80% dei morti sono stati assassinati dalle truppe d’occupazione [l’esercito]. La percentuale è scesa un po’ nel 2009 perché c’è stata la controffensiva dei narcos locali, spiazzati ma non sconfitti”.

Gli organismi di difesa dei diritti umani hanno finora dimostrato le responsabilità dei militari nella sparizione di almeno cinque persone e ci sono centinaia di denunce per crimini, anche comuni, commessi dall’esercito. “A Juárez –continua il nostro testimone- non c’è una guerra tra narcos nella quale lo stato arriva a restaurare l’ordine ma un massacro commesso dall’esercito mandato a sostituire un cartello con un altro più controllabile”. È così che il sistema giudiziario messicano svanisce completamente. Molti sono i motivi del collasso ma la sostanza è che, come in guerra, lo Stato stesso rinuncia a castigare perché pienamente coinvolto nella violenza.

Óscar Maynez commenta che in questo modo uccidere è diventata la miglior maniera per risolvere questioni pratiche: “se devi 20.000 pesos (1.200 Euro) a qualcuno è più economico pagare 3.000 pesos a un sicario. Liberarsi di una moglie o un’amante molesta oggi è molto facile. Giorni fa hanno assassinato nel suo letto un autista d’autobus rimasto tetraplegico dopo un incidente stradale. Tutto indica che è stato ucciso dal suo datore di lavoro per non pagare l’indennizzazione. Ma non c’è nessuna inchiesta in corso per questo omicidio”.

Neanche per la morte di Alfredo Portillo, genero di Marisela Ortiz, dirigente dell’associazione “Nuestras hijas de regreso a casa” è mai stata aperta un’inchiesta. Marisela, che ci riceve nella scuola dove insegna, è considerata la “madre di Plaza de Mayo” di Ciudad Juárez per la sua lotta contro i femminicidi. Alfredo, come il docente universitario Manuel Arroyo, il dirigente contadino Armando Villareal, il giornalista Armando Rodríguez o Josefina Reyes e altri sette difensori dei diritti umani, insieme ad anonimi militanti di movimenti sociali o organizzazioni di quartiere, sindacalisti, studenti, giovani ribelli, fanno parte della lista delle decine di “omicidi politici” che nessuno riconoscerà mai come tali e per i quali l’esercito messicano vanta una lunga tradizione de Tlatelolco in avanti.

Sono “omicidi politici”, che servono a garantire impunità, affari e ingiustizia sociale. Vengono classificati con la bugia pietosa della “pallottola vagante” o liquidando i fatti come “questioni private” o con l’insulto calunnioso del “era coinvolto in qualcosa”, ovvero nel narcotraffico. “Omicidi politici” che sono un dettaglio nel puzzle juarense ma testimoniano l’esistenza di una guerra nella guerra: quella contro la società civile e chiunque sogni un’altra Juárez possibile.

Seconda parte

Juarez3MODERNITÀ Juárez è enorme. Lo spazio urbanizzato verso il deserto non ha limiti. Le grandi strade sono percorse da decine di pattuglie dell’esercito e della polizia federale. In mimetica vanno i militari, in nero la polizia federale, entrambi in passamontagna e armati fino ai denti. I posti di blocco asfissianti rallentano il traffico in una città dove il desiderio di normalità si scontra con la realtà. Non erano passate due ore dal mio arrivo in città quando sono stato fatto scendere dall’auto per una perquisizione corporale circondato di militari armati.

La maggior parte delle automobili private non ha targa e chi è a bordo è nascosto da vetri polarizzati. Dopo la perquisizione percorriamo la città su vecchi autobus statunitensi acquistati per terminare le loro vite qui. Le facce dei passeggeri sintetizzano quelle di tutti i popoli indigeni messicani venuti a cercare fortuna qui. A volte vi si possono scorgere anche quelle di etnie del Nord America, gli indiani dei western, così simili ai gruppi indigeni del nord del Messico e oltre frontiera costretti nelle riserve.

Ogni viaggio si fa lungo su questi autobus che ansimano nella polvere tra quartieri abitativi chiusi da muri altissimi, frazionati in distese di villette a schiera tutte uguali (la fattura invece cambia di zona in zona promuovendo un popolamento iperclassista), grandi centri commerciali ed enormi spazi vuoti, terre desolate eliotiane che si trovano anche in zone centrali e semicentrali. Per andare a lavorare i juarensi che non hanno auto devono perdere ore a bordo di questi autobus. Alcuni di loro, i più anziani, hanno combattuto negli anni ’70 e ’80 importanti lotte comunitarie perché nei loro quartieri periferici arrivassero i servizi essenziali. Luce, acqua e poco altro: questo è rimasto del “sogno juarense”.

L’urbanista colombiano Edwin Aguirre, che incontriamo nel COLEF (Colegio de la Frontera Norte), prestigioso centro di studi sui problemi della frontiera, ci offre un’interessante chiave di lettura: “dagli anni ’70 ad oggi la città ha moltiplicato per cinque la popolazione. In questi quarant’anni non è stata aperta neanche una preparatoria, restano quelle che già c’erano negli anni ‘60”. La prepa nel sistema scolastico messicano equivale al Liceo e dà accesso all’università. Nessuno ha mai previsto che i figli degli immigrati di prima o seconda generazione potessero ascendere socialmente arrivando all’università. “Gli immigrati, gli operai, le operaie non sono mai stati percepiti come cittadini –commenta ancora Óscar Maynez- e la città intera si è sviluppata secondo gli interessi di poche grandi famiglie”. La gente non vive dove sarebbe più utile e comodo vivere ma dove è convenuto collocarli ai padroni della città, i Zaragoza, i Fuentes, i Vallina. Nel Messico del secolo XXI lo storico riconosce facilmente la categoria di “Repubblica oligarchica” che caratterizzò l’America latina del XIX secolo.

Per Ignacio Alvarado: “non c’è differenza tra PRI e PAN [l’ex partito di regime e il partito di destra attualmente al governo]. Tutti i sindaci, i governatori, i capi della polizia sono stati sempre designati dalla confindustria della città”. Quando negli anni ’70 il narcotraffico come lo conosciamo oggi si sostituì al contrabbando frontaliero tradizionale: “era un affare per giovani di classe medio-alta subordinati alla DNS [la polizia politica del PRI]”. Così si genera il narco juarense, strutturalmente espressione della classe dirigente della città: per quest’ultima è una forma di accumulazione primaria come il riciclaggio e il contrabbando. Si esportava droga e si importavano armi e ognuno prendeva la sua fetta.

Nel centro storico, sulla riva del Rio Bravo e del muro voluto da George Bush e che nessun Barack Obama smantellerà la maggioranza dei locali è chiuso. Ancora nel 2006 la città vecchia di Juárez era il centro della vita notturna transfrontaliera. Migliaia di statunitensi passavano la frontiera per divertirsi, ubriacarsi, perdere soldi nei casinò e comprare sesso a basso costo nei bordelli. Quando passiamo il ponte internazionale per El Paso (che si definisce orgogliosamente la seconda città più sicura degli Stati Uniti) impieghiamo due ore e mezzo in code e umilianti pratiche doganali. Al ritorno in Messico neanche ci controllano il passaporto.

A El Paso ci incontriamo con Gustavo de la Rosa, difensore dei diritti umani, minacciato di morte a Juárez e rifugiato da mesi dall’altra parte del fiume. Gustavo è oggetto di una campagna di solidarietà di Amnistia Internazionale e continua a lavorare a tempo pieno per la sua città e per i suoi studenti dell’Università di Ciudad Juárez ai quali oggi può continuare a far lezione via Internet attraverso strumenti come Skype: “i consumi idrici non mentono. In due anni se ne sono andate almeno 100.000 persone. Le classi medio-alte si sono trasferite a El Paso. Quelle operaie ritornano nel resto del Messico, a Oaxaca, Durango, Veracruz”. Il 25% delle case di Juárez oramai sono vuote. L’intero sistema economico legale è in rovina e il considerare il narco la causa e non la conseguenza di tale rovina è probabilmente un’illusione ottica data dalla contingenza della conta dei morti ammazzati.

Elizabeth Ávalos denuncia: “è comparsa la fame nei quartieri più poveri, qualcosa di sconosciuto qui. La violenza sta distruggendo posti di lavoro in tutti i settori, compreso quello informale, che in altri periodi di crisi rappresentarono un rifugio per molti”. Nell’industria la violenza, l’insicurezza sono l’occasione per un peggioramento ulteriore dei rapporti di produzione: “le maquiladoras che restano pagano salari che oramai arrivano ai 500 pesos settimanali [30 Euro]. I contratti oramai possono durare appena 15 giorni”.

Nonostante tale deregolamentazione totale dei rapporti di lavoro, in due anni le maquiladoras hanno perso 80.000 posti di lavoro rispetto ai 280.000 di appena due anni fa. Non sembra più una crisi ciclica come quelle dell’82 o del 2000, ma strutturale. Alla disarticolazione neoliberale del mercato del lavoro e alla crisi internazionale che il Messico soffre in modo particolare con la sua economia completamente dipendente dalla statunitense (il PIL è crollato del 6.5% nel 2009), Juárez aggiunge la difficoltà a districarsi tra legalità e illegalità, politica e mafia, classe dirigente e cupole criminali, impresa e narco.

Terza ParteJuarez5

STATO D’ASSEDIO Da quando è stato eletto, il presidente Felipe Calderón ha dichiarato guerra al narcotraffico. La sua strategia non consiste nell’investire nella società civile e nella legalità ma nella militarizzazione del territorio attraverso il controverso esercito messicano. Questo è costruito per occuparsi dell’ordine interno e in molteplici contesti si è dimostrato essere pienamente coinvolto nel narcotraffico che dovrebbe combattere. Lo dimostra il fatto che il 16 dicembre 2009, a Cuernavaca (centinaia di km dal mare nello stato di Morelos), la DEA statunitense sia ricorsa alla Marina, nell’operazione per detenere e uccidere Arturo Beltrán Leyva, alias “il capo dei capi”. Questo, quella sera stessa, aspettava a cena il generale Leopoldo Díaz Pérez, responsabile militare dell’intera regione.

Le prime operazioni militari cominciano nel 2007 nel Michoacán, nel Guerrero e in Bassa California, quindi a Chihuahua nel 2008, per un totale di 45.000 soldati dispiegati in tutto il paese. Il punto critico di tale strategia è proprio Ciudad Juárez, la principale piazza di droga del Messico, dove si concentrano circa il 40% dei morti ammazzati dell’intera guerra, che oramai corrono verso i 20.000 senza che si riesca a cauterizzare la ferita. Anzi, la violenza non ha fatto che aumentare in proporzione alla presenza dell’esercito.

Il 31 gennaio 2010 è stato un momento topico nella storia della guerra a Juárez: quindici studenti sono stati assassinati in una festa in un quartiere popolare nel sud della città. Uno o alcuni di questi “erano coinvolti in qualcosa” ma la maggior parte erano ragazzi “normali”. L’opinione pubblica, che durante molti mesi era rimasta in silenzio, terrorizzata dall’aggravarsi quotidiano della situazione, in questa occasione ha reagito.

Dopo anni di assenza sia Calderón che il suo ministro degli Interni, Fernando Gómez-Mont, sono venuti a Juárez varie volte nel giro di un mese. Si sono scontrati con ripetute ed importanti manifestazioni di protesta nelle quali sono stati accusati di essere responsabili non solo politicamente ma anche giudiziariamente della catastrofe juarense. Il presidente ha offerto quel poco che può (o vuole): più militarizzazione della città oltre a pochi milioni di pesos da investire dopo decenni di oblio.

Troppo poco e troppo tardi hanno commentato i giornali messicani e texani di qualunque filiazione politica, filogovernativa inclusa. Al contrario la grande stampa internazionale ha evitato come sempre di calcare la mano. Preferiscono glissare sull’intera tragedia messicana, da quella economica a quella umanitaria, in quanto paese ortodossamente allineato al modello neoliberale e fedele alleato degli Stati Uniti. È il caso per esempio di El País di Madrid, che con sprezzo del ridicolo continua ad esaltare i “trionfi” (sic) di Calderón nella lotta al narcotraffico.

“Quella di Calderón è una politica di alta simulazione” è convinta al contrario Marisela Ortiz. Durante la prima visita a Juárez il presidente è stato duramente apostrofato dalla signora Luz María Dávila, madre di due degli adolescenti assassinati il 31 gennaio, un fatto simbolico che ha contribuito a denudare il re.

Obbligati per la prima volta a metterci la faccia, Calderón e Gómez-Mont hanno sostenuto in più sedi -ma in pochi hanno creduto loro- che l’esercito non è una delle cause principali della violenza. Non la pensano così la totalità degli esperti che abbiamo incontrato a Juárez: non solo l’esercito e la polizia federale giocano la loro partita nella guerra tra narcos, ma hanno importato forme di criminalità prima assenti dal contesto della città, come i sequestri di persona e la richiesta di pizzo, reati che hanno aggravato la crisi economica e contribuito alla chiusura di almeno 5.000 piccole e medie imprese in pochi mesi.

Oggi a Juárez la vita economica, sociale e politica è semplicemente impossibile. Nessuno si aspetta qualcosa dalle imminenti elezioni a governatore e a sindaco. Il PRD, il partito di centrosinistra che nel 2006 era cresciuto per la prima volta fino al 20% nel 2009 è sparito al 2%. L’UNESCO denuncia che perfino le scuole sono obbligate a pagare il pizzo perché gli studenti non siano crivellati all’uscita. Nella scuola dove lavora Marisela Ortiz un enorme manifesto invita gli studenti a non andare a casa a piedi e usare gli autobus: “non rischiare”.

Perfino l’industria più forte della città, quella funeraria, è in crisi dopo casi di minacce, attentati, sequestri e omicidi durante le stesse veglie funebri. Molti morti oramai sono seppelliti senza essere vegliati, spesso in segreto per non mettere a rischio i parenti. Conclude Elizabeth Ávalos: “sono trent’anni che i movimenti sociali denunciano che questo modello di sviluppo ci avrebbe portato alla situazione attuale. Non ci hanno mai ascoltato e quello che viviamo oggi è quanto hanno seminato”. Il fatto che il 65% dei morti sia figlio o nipote di operaie delle maquiladoras, giovani costretti a crescere con le madri impegnate da sole a sole in fabbrica per pochi pesos, senza alcuna opportunità di promozione sociale, di studio, di lavoro, conferma l’amara e lucida analisi di Elizabeth.

LA GUERRA DEL CHAPO GUZMÁN? Joaquín Guzmán Loera, 1954, soprannominato “el Chapo”, capo del Cartello di Sinaloa (stato settentrionale sulla costa pacifica), è probabilmente il più importante narcotrafficante al mondo. Secondo il periodico statunitense Forbes ha accumulato una fortuna di un miliardo di dollari ed è tra le 40 persone più influenti del pianeta.

Arrestato nel 1989 riuscì a scappare dal carcere di massima sicurezza di Puente Grande nel 2001, subito dopo che il partito di destra del PAN era arrivato al potere dopo 70 anni di regime priista. Chi avrebbe gestito la sua fuga sarebbe stato lo stesso Procuratore Generale della Repubblica all’epoca di Vicente Fox, Eduardo Medina-Mora. Oggi solo la DEA statunitense sembra essere interessata alla sua cattura, già che Calderón, un presidente che non parla mai di corruzione in uno dei paesi più corrotti del pianeta, non mostra nessuna fretta di arrestarlo.

La logica dell’uso dell’esercito e della polizia federale, “operazioni congiunte” come vengono chiamate, nel Chihuaua e negli altri stati risponde solo teoricamente alla strategia concordata in una riunione segreta con la DEA nei primissimi giorni di governo di Felipe Calderón: sterminare i cartelli minori e “controllare” i maggiori. Quello che appare sotto i nostri occhi è che il governo abbia “mal interpretato” la linea della DEA e invece di tenere sotto controllo il Cartello di Sinaloa collabori con questo nel conflitto con gli altri.

Molteplici ricerche, inchieste giornalistiche e le testimonianze raccolte a Juárez raccontano di una guerra dove il Chapo entra a Juárez solo quando può contare sull’aiuto militare. L’esercito, lo stesso partito di governo, il PAN, e la polizia federale a Juárez sarebbero, secondo le diverse interpretazioni di una stessa dinamica, alleati, subordinati o manovratori di Guzmán. Qual che sia la correlazione di potere, solo con tale aiuto Guzmán ha potuto mettere la sua “gente nuova” a controllare lo spaccio al posto delle bande annichilate dall’esercito. Quello che è sicuro è che chi ha deciso di scatenare la guerra per il controllo di Ciudad Juárez -che sia il Chapo, Calderón, l’esercito o la DEA- due anni e 4.700 morti dopo non è ancora riuscito a vincere.

Se il cartello del Chapo è considerato l’espressione imprenditoriale e professionale del narcotraffico, quello di Juárez, implicato in passato in vari femminicidi, appare come una struttura criminale tradizionale che non ha il know how per gestire quella che oramai ha sorpassato il petrolio come maggior industria del paese. È però un cartello particolarmente radicato nella società e nella classe dirigente della città. A Juárez gioca in casa e il prezzo del tradimento è la morte. Controlla ancora la polizia locale e può contare come carne da cannone su quell’infinita generazione perduta di figli e nipoti delle maquiladoras. Tra i 30-40 Euro alla settimana che pagano in fabbrica e gli almeno mille che garantiscono i cartelli per troppi giovani non c’è alternativa. Così “la Línea” (anche così si chiamano i narcos locali) è sopravvissuta nel 2008 alla valanga dell’arrivo dell’esercito e nel 2009 è riuscita a contrattaccare utilizzando perfino tattiche di guerriglia.

In questo contesto, da parte del Chapo, il senso del massacro degli studenti il 31 gennaio sarebbe stato quello di creare un evento mediatico per permettere all’ “alleato” Calderón un’ulteriore e definitiva militarizzazione della città. Con una Juárez inondata di soldati, potrebbero arrivare a 50.000 secondo alcune fonti, si riuscirebbe ad eliminare fisicamente il Cartello di Juárez a un prezzo di morti, stupri e sparizioni di persone forse senza precedenti persino nella storia violenta del paese. Ma il Cartello di Juárez non verrebbe sterminato per sconfiggere il crimine ma solo per sostituirlo con un altro cartello considerato più affidabile.

Mentre il livello di violenza continua ad alzarsi e una madre a Juárez può morire perché ha un’automobile simile a quella di un narco inseguito da sicari poco scrupolosi, uno dei nostri intervistati ci esprime un sentimento condiviso da molti: “la cosa migliore per Juárez sarebbe che vincesse il Chapo e pacificasse alla sua maniera la città”. È un’espressione di realismo forse, ma manifesta anche che la stanchezza, la paura, il male di vivere a Juárez nel 2010 rendono questa città una sorta di Saigon alla vigilia dell’entrata dei Vietcong. Prima di allora ci saranno ancora migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati in questa guerra che al complesso mediatico mondiale non interessa raccontare anche perché testimonia il percorso storico del neoliberismo: con la società civile smantellata e se tutto quello che è profitto è accettabile, la vittoria sorriderà ai “Chapo Guzmán”, il più moderno degli imprenditori neoliberali.

Capo corrotto, nazione infetta

27 febbraio 2010, by  
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Riportiamo un interessante analisi di Alberto Asor Rosa, pubblicata in un articolo de Il Manifesto del 21 febbraio 2010.

Un fiume di fango corre per l’Italia. Le sue acque sono alimentate soprattutto dal corpaccio immenso e immensamente ramificato dal centrodestra; ma il suo corso è talmente possente e impetuoso che, come suole, ha rotto gli argini e invaso i territori circostanti, quelli del centrosinistra, dai quali, a loro volta, provengono al fiume principale rivoli, ruscelli, scarichi obbrobriosi e maleodoranti (Bologna, Firenze, Abruzzo, Roma, Napoli….). Altro che Tangentopoli! Quello era – o sembrava – un fenomeno circostanziato e dunque particolare di corruzione di una frazione del ceto politico, fronteggiato da un forte schieramento delle forze politiche e della società civile. Oggi il fenomeno tende a generalizzarsi, abbatte i confini fra società politica e società civile, non incontra ostacoli altrettanto significativi di allora, si configura dunque come un carattere speciale, peculiare, della società nazionale italiana in questa fase storica.

La corruzione, a dir la verità, è sempre stata un connotato molto peculiare del modo d’essere nazionale italiano. Un paese dalle strutture politiche e civili estremamente fragili e dall’arrendevole senso etico-politico non poteva non coltivare la corruzione come un indispensabile e incostituibile strumento di sopravvivenza. La dominante cattolica ha fatto il resto: nulla è impossibile o illecito in un paese in cui qualsiasi colpa, qualsiasi peccato, purché confessati a chi di dovere, diventano redimibili (lo spiega benissimo non un qualsiasi miscredente arrabbiato ma Alessandro Manzoni ne I promessi sposi, nei quali, beninteso, contrappone la sua ricetta, fatta, oltre che di fede in Dio, di rigore e di osservanza dei principi, più protestante, a dir la verità, che cattolica, ma tant’è). In certi momenti speciali la corruzione esplode (perché la corruzione esplode, esplode sempre; bisogna vedere quel che succede poi). Ricordate Pirandello, le pagine impressionanti de I vecchi e i giovani, che a distanza più o meno d’un secolo sembrano scritte esattamente per il nostro oggi? «Dai cieli d’Italia in questi giorni piove fango, ecco, e a palle di fango si gioca; e il fango s’appiastra da per tutto, su le facce pallide e violente sia degli assaliti sia degli assalitori… Diluvia il fango; e pare che tutte le cloache della città si siano scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma debba affogare in questa torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia» (Pirandello dimostra fra l’altro che, per disegno e deprecazione della corruzione d’impronta democratica, in certe condizioni storiche si poteva anche diventare fascisti). Poi, scaricata provvisoriamente l’incontenibile soppurazione, l’infezione lenta e inesorabile riprende.

Perché Lui è popolare
Di nuovo oggi c’è che, forse per la prima volta nella nostra storia, si sono verificate una mirabile saldatura e una prodigiosa coerenza tra le forme, lo spirito e l’etica del potere e le forme, lo spirito e l’etica della società circostante. Anzi, alla domanda che spesso ci è stata burbanzosamente rivolta, com’è possibile che quest’Uomo riscuota tanto consenso, considerando la gravità e il numero delle colpe di cui viene accusato, forse una risposta sul piano storico comincia a delinearsi. Quest’Uomo è così popolare non nonostante le sue colpe ma in virtù di quelle. Una parte non piccola del popolo lo ama perché Lui lo interpreta, ne lusinga tutte le tentazioni di corruttibilità e di un radicato, anzi congenito indifferentismo morale, gli spiega che le leggi esistono per essere aggirate, contraddette, ignorate, nega oltraggiosamente il potere della giustizia, attacca i magistrati, fa capire che se ne potrebbe senza difficoltà fare a meno, mostra con l’esempio lampante della propria vita e del proprio cursus honorum che bisogna sempre e senza eccezioni farsi gli affari propri, evidenzia coram populo e senza alcuna vergogna che esistono una coerenza rigorosa e un’inarrestabile osmosi fra vizi privati e pubbliche nefandezze. Insomma, a capo corrotto nazione infetta, e, ovviamente, viceversa. Tutte queste cose, poi, in un paese come l’Italia, dove esistono tre fra le più potenti organizzazioni criminali al mondo (camorra, ‘ndrangheta, mafia) – le quali a loro volta, com’è ovvio, traggono alimento anch’esse sia da quel diffuso bisogno di sopravvivenza sia dalla risposta corrotta intorno dominante – piacciono almeno a una parte abbastanza consistente dei cittadini da garantirgli una sicura maggioranza in Parlamento: quella maggioranza che a sua volta assicura che l’impunità continui e anzi si rafforzi, in un perfetto circolo vizioso che effettivamente ha pochi eguali al mondo, e che proprio perciò qualcuno altrove potrebbe essere tentato d’imitare.

Il ceto politico corrotto
E intorno? Intorno, a cerchi concentrici s’allarga la serie variegata delle risposte. La corruzione, come sistema di potere e forma di vita, stinge solo poco a poco, molto lentamente. Nei cerchi più vicini, sebbene formalmente non suoi, l’esempio e l’insegnamento dell’Uomo hanno attecchito e continuano a essere ben presenti. Voglio precisare una cosa: è della politica che parlo, non delle stravaganti esibizioni da parte di qualche transessuale brasiliano (fango, certo, sempre fango, ma della specie più miserabile e bassa). Da questo punto di vista è corrotta in nuce ogni politica che agisca sulla base d’interessi personali o di gruppo: è corruzione, nel suo senso più alto e significativo, l’autoreferenzialità spinta della politica, il suo preoccuparsi pressoché esclusivamente della preservazione e perpetuazione del ceto politico (di destra o di sinistra, non importa), che la rappresenta e gestisce. Questo è il varco, apparentemente innocuo, da cui penetra ogni ulteriore nefandezza, bisognerebbe tenerne più conto.
Da questo punto di vista (continuo il ragionamento), si salva davvero poco oggi in Italia. Dopo la recente, peraltro prevedibilissima, virata dell’astuto Tonino, il quadro si è ulteriormente semplificato. La galassia della sinistra radicale si sforza più o meno di sopravvivere indenne sul filo dell’onda fangosa che tutto travolge: anche lei, in fondo, pensa soprattutto a non sparire. Si riorganizza unitariamente, magari con ambiziosi programmi di rinnovamento, solo là dove viene spinta a calcinculo fuori dalla rappresentanza che conta: altrove s’adatta o collude.

Ma c’è chi resiste
E allora? In questa sommaria ricostruzione storica sarebbe sbagliato – e ingiusto – non rammentare che alcune istituzioni costruite nei decenni precedenti resistono. Resiste la magistratura. Resistono le forze dell’ordine: polizia, carabinieri, guardia di finanza. Basta pensarci un momento: se non ci fossero né l’una né le altre, saremmo in piena dittatura sudamericana. Resiste una parte del sindacato. Resistono, come ho avuto modo di dire più volte, meritandomene in cambio sberleffi e dileggio, la scuola. E resistono milioni di italiani, che stanno fuori di ogni sistema della corruzione e ragionano e operano sulla base di principi e valori e non d’interessi e affermazioni personali, ma non sono politicamente rappresentati, oppure, se lo sono o credono di esserlo, avvertono con disagio crescente di esserlo in forma imperfetta e sempre più compromissoria.

In Italia le grandi crisi, anche quelle indotte da un eccesso intollerabile di corruzione, sono sempre state affrontate e risolte dall’esterno. Anche la prima Tangentopoli è stata affrontata e risolta dall’esterno, anche se era un esterno che veniva dall’interno, la magistratura italiana: la politica già allora non ci sarebbe mai riuscita da sé. Oggi al contrario è la magistratura che da sola non può farcela, perché il sistema della corruzione è troppo coeso e potente, va dall’alto in basso e dal basso in alto, senza smagliatura alcuna (le dimissioni in questo paese non esistono più neanche di fronte all’evidenza più disgustosa: infatti, se una sola fosse data o una sola accettata, tutto il castello di carte verrebbe giù d’un colpo solo). Siccome è lecito dubitare che le armate anglo-americane siano in procinto di scendere nella penisola per aiutare i resistenti indigeni a restituire al paese libertà, verità, onestà e giustizia, l’ipotesi più probabile è che i cerchi meno compromessi con il sistema della corruzione si mettano d’accordo fra loro per salvare il salvabile, affidandone il compito a uno di questi uomini slavati e impenetrabili, privi di ogni carattere ma passabilmente astuti, abituati da una vita a danzare sul filo, e che precisamente il sistema della corruzione ha consentito salissero così in alto nonostante la loro mediocrità così palese.

Si cercherà cioè di affrontare il male maggiore con il male minore, in attesa che il giro ricominci. Desolante. Ma anche molto, molto italiano.