La morte di Giorgio Bocca: addio a un partigiano giornalista
27 dicembre 2011, by admin
Archiviato in Dall'Italia, Primo piano
Di Stefano Galieni, www.controlacrisi.org
Giorgio Bocca se ne è andato, a 91 anni dopo averne viste e fatte tante. Ci mancherà anche se non era comunista, anche se per qualcuno, forse troppo miope, era anti comunista e sbagliava. Basta leggere con cura le invettive scritte negli ultimi anni sul Venerdì di Repubblica, basta leggere la sua indignazione verso una forbice che si allargava fra chi più aveva e chi più era escluso. Bocca era stato partigiano, comandante partigiano, e conservava ancora quel lucido schierarsi quel decidere da che parte stare. Coglieva il fascismo della seconda repubblica, non il ciarpame berlusconiano ma i dettagli di una logica neoautoritaria in cui il lavoro non conta più in cui la speculazione e la finanza muovono e decidono su tutto, in cui la politica rinuncia al suo ruolo.
Avesse avuto 30 anni di meno lo avremmo forse visto in piazza e non certo dalla parte di Marchionne, con gli studenti e non con la Gelmini, con i precari e non con i retaggi del programma di Sacconi. Bocca restava soprattutto antifascista, nel sangue e nell’occhio con cui guardava il mondo, il Paese e le sue miserie, disprezzava tanto i governanti quanto la finta opposizione, parlava, lui ultranovantenne, dell’importanza di salvare la terra come bene comune.
Scriveva su Repubblica solo grazie al fatto che di quel giornale aveva fatto la fortuna, avesse avuto meno prestigio, lo avrebbero già sbattuto fuori, troppo fuori dal coro, così poco adatto ai miasmi veltroniani. Il suo giornalismo era partigiano, antifascista e laico e poco si sposa con la palude quotidiana. Non piaceva a tanti Bocca, gli stessi che oggi lo rimpiangono con lacrime false e fastidiosi omaggi, di quelli che avrebbe scacciato con un calcio, da montanaro rude e diretto, privo di doroteismo. Alcune sue idee erano frutto di pregiudizi assurdi, sul Sud, sui giovani, ma nel piatto della bilancia pesa anche il fatto di aver voluto, forse per primo, considerare la lotta armata non con le solite frasi sbrigative ( problema di ordine pubblico) ma come segno di una profonda inquietudine sociale che nasceva in fabbrica e entrava nelle mutazioni delle città, delle metropoli, forse perché invece di limitarsi a osservare, lui con i militanti delle BR ci parlava. Un giornalista che ci mancherà, un partigiano in meno in un Paese che ha bisogno ancora e molto di partigiani
Di seguito uno degli ultimi articoli di Giorgio Bocca uscito su L’Espresso il 28 novembre scorso riguardo al dissesto idrogeologico del nostro Paese:
I dissesti? Tutta colpa nostra
di Giorgio Bocca
I disastri causati dalle alluvioni sono colpa degli uomini, non dei mutamenti climatici. Perché prima si costruisce senza criterio e poi non si ha la capacità di affrontare le emergenze
(28 novembre 2011)
Qual è stata nella recente alluvione di Genova la responsabilità maggiore dei danni? I comportamenti abituali degli uomini in tema di alluvioni. Prima le prepariamo costruendo nelle zone in cui dovrebbero esondare le acque di piena, poi aggraviamo il disastro continuando a vivere nel corso delle alluvioni come se non ci fossero: bambini a scuola, automobili nelle strade, cittadini lenti a rifugiarsi anche sulle alture. Sicché vista dall’alto, vista da un terrazzo, la piena di un fiume appare come una corsa pazza di persone che non sanno cosa fare, dove andare, come ripararsi.
Ho conosciuto il comportamento dei miei simili anni fa durante l’inondazione del Polesine. Il Po era in piena da almeno una settimana, ma nel Polesine nessuno se ne curava. Solo la guardia municipale di un paese vicino a Ferrara, Occhiobello, si decise a sfidare quanti non volevano spaventare la gente di Occhiobello dando l’allarme suonando le campane, e il Po stava già precipitando nella breccia da cui stava invadendo le zone di Adria e Rovigo. Fu la mia scuola di alluvione.
Strana scuola, alle prime ore del mattino partivamo in auto da Ferrara, raggiungevamo il grande lago formatosi con la piena, salivamo sugli anfibi dei vigili o dei soldati arrivati in soccorso da tutta Italia e giravamo per quel mare immobile e azzurro in cui si specchiavano le nevi delle Alpi. Gli abitati apparivano con i loro campanili sorgenti dalle acque, si vedeva la gente che si era rifugiata sui tetti, alcuni erano rimasti impigliati come uccelli fra i rami di un albero. Un giorno arrivammo a Adria, la gente alle finestre applaudiva, la strada principale era diventata una specie di Canal Grande, a un balcone le signorine del bordello salutavano festose come educande.
Chi è scampato a un’alluvione sa bene quali sono le colpe e gli errori fatti dagli uomini. Anni fa feci un viaggio lungo il Po dalla sorgente alla foce. Era chiaro che almeno la metà delle case da Revello in poi sarebbero state allagate. Il disastro predisposto dagli uomini continuava per tutto il corso del fiume: scomparsi i canali di scolo dei boschi, asfaltate tutte le strade, un mantello di cemento attorno alle città, nessun taglio degli alberi cresciuti lungo le rive, una proliferazione di pioppi che non potevano trattenere le acque. E sì che gli spazi nella pianura del Po ci sembravano enormi, in Liguria in quegli stretti spazi strappati alla montagna la morte come dei topi in un secchio era sicura.
Un altro fatto importante nelle alluvioni dipende dalla “civiltà idrica” degli uomini: ci sono regioni in cui sono avvenute alluvioni disastrose, come il Friuli e il Biellese, in cui spontaneamente, per tradizioni storiche, gli abitanti del posto hanno immediatamente iniziato la ricostruzione e nel giro di poche settimane hanno rimesso le strutture del paese in condizioni di funzionare. A seguito di altre catastrofi nei paesi arretrati del Sud, come in Irpinia o nel Belice, le conseguenze e i danni si sono protratti per anni. In alcune zone d’Italia progredite gli uomini e le loro organizzazioni reagiscono immediatamente, mentre in altre comincia la lagna dei soccorsi dello Stato che non arrivano.
Il dramma di questo Paese è di avere queste contraddizioni che non possono essere guarite dall’intervento del governo, ma sono connaturate alla storia delle popolazioni.
Coltivare la paura
22 febbraio 2010, by admin
Archiviato in Dall'Italia
Pubblichiamo un interessante analisi tratta dal Blog di Alessandro Gilioli, giornalista de “L’Espresso”, sul rapporto tra manipolazione propagandistica della televisione e reazioni sociali.
Da sempre i mezzibusti Mediaset – e anche Mentana a suo tempo – si autoassolvono sostenendo che la televisione «non sposta voti». Forse si riferiscono agli inginocchiamenti di Fede, che ormai sembrano comici anche alle nonne. Però magari prima di parlare potrebbero utilmente leggersi questo rapporto realizzato da Demos con l’Osservatorio di Pavia, o se sono di fretta limitarsi almeno a guardare questa tabella:
La linea blu, quella in basso, racconta l’andamento dei reati in Italia dall’inizio del 2005 alla fine del 2009. Quella gialla, in mezzo, si riferisce alla paura della criminalità nella popolazione. Quella rossa, in alto, indica le notizie sulla criminalità date dalle televisioni (pubbliche e private).
Claudio Messora ha aggiunto alla tabella quella fascia più chiara in mezzo che indica il periodo del governo Prodi. Ma si noti anche che la percezione della criminalità ha raggiunto il punto più alto in concomitanza con le elezioni politiche del 2008.
Se poi proprio un casino scoppia al momento sbagliato, c’è un altro sistema facile facile per rovesciare il tavolo: basta attribuirne la responsabilità agli avversari. Anche quando si governa da un quindicennio il paese, la regione, il comune e – attraverso la Lega – pure la circoscrizione.
L’importante, alla fin fine, è coltivare la paura nell’etnia più pericolosa di Milano e non solo: quella che ragiona con la pancia.
Piovono rane – Alessandro Gilioli